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(Ansa)
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Il vero successo della Cop28, aver dominato ideologia e ipocrisia

La buona notizia è che dopo quasi trent’anni si è finalmente riusciti a inserire nella dichiarazione finale della Conferenza internazionale sul clima la parola “combustibili fossili”. E c’è chi è persino contento del risultato, ovvero aver tolto dal testo l'espressione “eliminazione graduale”, pena la mancata firma di chi il petrolio lo estrae, come l'Arabia Saudita. A che cosa servano veramente eventi come la COP28 appena conclusa è la domanda che comincia a circolare anche tra chi partecipa, dubbioso anche a proposito della cadenza annuale, perché, se dodici mesi possono sembrare tanti, in realtà le priorità delle nazioni sono ben altre e prendere decisioni così importanti in fretta sotto la pressione scatenata dall’iper-comunicazione mediatica di oggi a proposito di riscaldamento globale, appare inopportuno.

Alla fine, le dichiarazioni che escono dalla COP28 suggeriscono una serie di misure che le nazioni potrebbero adottare per ridurre le emissioni di gas serra pur senza contemplare l’eliminazione graduale dei combustibili fossili che molte nazioni hanno richiesto nonostante le critiche da parte degli Stati Uniti, dell’Unione europea e dei paesi vulnerabili dal punto di vista climatico. C’è qualcosa da spiegare: che le fonti fossili siano responsabili delle emissioni di gas serra è universalmente accettato, ma ci sono prodotti derivanti dal petrolio – e dalla sua quantità estratta - che nulla hanno a che vedere con la mobilità e la produzione d’energia: fertilizzanti, plastiche, zolfo, carbonio, persino basi chimiche destinate a vari tipi di industrie. Che ne sarebbe di tutto questo?

E poi c’è la necessità di crescita, che equivale a dire richiesta di energia, e che ha messo a nudo profonde divisioni internazionali sulla questione se il petrolio, il gas e il carbone debbano avere un posto in un futuro rispettoso del clima oppure no. Così la nuova bozza di accordo COP28 ha elencato otto opzioni che i paesi potrebbero usare per ridurre le emissioni, tra le quali “ridurre sia il consumo sia la produzione di combustibili fossili, in modo giusto, ordinato ed equo in modo da raggiungere lo zero netto entro, prima o intorno al 2050”. Frase che dice tutto e nulla, ovviamente, perché doveva essere firmata anche da chi il petrolio lo estrae e lo vende. Un’altra dichiarazione vorrebbe triplicare la capacità di produzione dell’energia rinnovabile entro il 2030, attuare una rapida riduzione graduale del carbone “senza abbattimento” e il potenziamento delle tecnologie, comprese quelle per catturare le emissioni di anidride carbonica per tenerle lontane dall’atmosfera. Tradotto significa portare l’apporto delle fonti rinnovabili dal 20 all’80%, un risultato praticamente impossibile da raggiungere stante la prima caratteristica delle fonti energetiche di questo tipo, ovvero la discontinuità, che colpirebbe così ogni tipo di industria o utilizzatore. Ovviamente nucleare a parte che però difficilmente potrebbe vedere centinaia di nuove centrali finite entro sette anni.

Si tratta di frasi che - per fortuna - lasciano ancora ai singoli paesi la scelta individuale su come intendono procedere, anche perché sono differenti le loro caratteristiche ed esigenze. Ecco perché trent’anni di negoziati internazionali sul clima non hanno mai portato a un accordo globale per ridurne l’uso. Ed è drammatico quanto ipocrita che il rappresentante americano John Kerry, preoccupato della riduzione di petrolio da estrarre, poi dichiari “Questa è una guerra per la sopravvivenza”, quando sa benissimo che senza idrocarburi interi stati finirebbero disabitati, Alaska in primis. Scontata la reazione del commissario europeo per la transizione ecologica e capo negoziatore dell'Ue, Wopke Hoekstra, il quale giudica la bozza “chiaramente insufficiente e inadeguata per affrontare il problema”, mentre drammatica è quella dei rappresentanti delle nazioni insulari del Pacifico, Samoa e Isole Marshall, che già soffrono gli effetti dell’innalzamento del livello del mare e che parlano di “condanna a morte” e di possibili reazioni. “Non andremo in silenzio nelle nostre tombe acquatiche”, ha detto John Silk, il capo della delegazione delle Isole Marshall, seguito dal ministro dell'Ambiente di Samoa, Cedric Schuster, “non possiamo firmare un testo che non prevede un forte impegno per l'eliminazione graduale dei combustibili fossili”. Infine, i paesi in via di sviluppo hanno affermato che qualsiasi accordo della COP28 per rivedere il sistema energetico mondiale deve essere accompagnato da un sostegno finanziario sufficiente per aiutarli a farlo, come ha commentato il ministro dell'ambiente colombiano Susana Muhamad, confermando che la Colombia sostiene l’eliminazione graduale dei combustibili fossili.

Così il testo finale firmato negli Emirati, la terza bozza in dieci giorni, chiede soltanto di “transitare” fuori dai combustibili fossili, ed anche se è la prima volta che ciò accade, l’accordo prevede che le nazioni, tutte e non soltanto quelle che rappresentano paesi sviluppati, contribuiscano anche insieme allo sforzo di transizione globale. Più avanti si legge: “riconosce la necessità di riduzioni profonde, rapide e durature delle emissioni di gas serra in linea con il percorso dell’1,5 gradi e invita le parti a contribuire agli sforzi globali, secondo modalità determinate a livello nazionale, tenendo conto dell’accordo di Parigi, ed anche di eliminare gradualmente nel più breve tempo possibile sussidi inefficienti ai combustibili fossili che non affrontano la povertà energetica o la transizione giusta.” Che cosa poi si intenda per “giusta” non è dato sapere, ma probabilmente potrebbe essere sostituita con “possibile”.

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