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August 11 2017
C’è molto di vero nel pensare che Donald Trump esalti il conflitto con la Corea del Nord per distogliere l’attenzione dal Russiagate.
Il Presidente ha infatti la netta sensazione di aver perso ascendente sul Dipartimento di Giustizia e sa che il Procuratore Speciale Robert Mueller è blindato, sia come indipendenza giuridica, sia come copertura politica trasversale di democratici e repubblicani al Congresso.
Se a questa situazione aggiungiamo il totale supporto all’inchiesta sulle collusioni coi russi da parte del mondo dei media – con il quale Trump è ormai in guerra permanente – ben si capisce come la sindrome d’assedio sia dominante alla Casa Bianca.
Tuttavia qualcosa non torna. Ed è la Cina. Perché Pechino, che può considerare benissimo la Corea del Nord un suo satellite, permette a Kim Jong-un un atteggiamento così provocatorio?
Il primo a porsi la domanda, a ben guardare, dovrebbe essere proprio Trump. Quando nel maggio scorso ha ricevuto il leader cinese Xi Jinping, The Donald si è concentrato principalmente sull’export alimentare. Manzi americani in Cina per polli cinesi in America. L’incontro fu ribattezzato, a ragione, la "pace del barbecue".
Oggi tuttavia vediamo come questa diplomazia del barbecue, che prevedeva anche un ruolo della Cina nel tenere a bada la Corea del Nord, fosse un’illusione. O meglio, una promessa alla quale gli americani hanno creduto sino ad oggi, mentre i cinesi non hanno mai creduto, dal primo istante.
È come se Pechino avesse trovato nella telenovela nucleare di Kim il proprio Russiagate; insomma la strategia per tenere Trump, e per estensione l’America, sulla graticola, distraendola dalle sue priorità di politica estera, che sono molte.
Come spiegare, viceversa, l’atteggiamento di apparente calma confuciana della Cina, con una guerra nucleare ai suoi confini? Pechino, c’è da sperare, conosce la vera natura delle minacce di Kim e lascia che la guerra verbale superi i confini del lecito perché, da regista dietro le quinte, sa che la sceneggiatura è basata su chi le spara più grosse e, soprattutto, che si spara solo “a salve”.
In effetti l’America di Trump, concentrata su dossier ispirati da Mosca e da Pechino, è di fatto senza politica estera. Il “pivot to Asia”, forse il più ambizioso progetto dell’amministrazione Obama, è ormai lettera morta.
La Cina non mantiene le promesse, sino ad ora, su Pyongyang e incassa accordi commerciali favorevoli con l’Occidente; sempre Pechino lancia una manovra espansiva nell’Himalaya indiano (il Sikkim) dove ormai la parola sta per passare ai generali senza che Washington giunga in aiuto, diplomatico, di Nuova Delhi. Singapore si sente abbandonata dagli USA e sa bene come la Cina le preferirà sempre Hong Kong, lasciandola circondata dal mondo musulmano di Malesia e Indonesia. L’Afghanistan, ammesso che Washington lo abbia mai avuto in controllo, senza “surge” militare sta tornando al predominio talebano, mentre il Pakistan è una mina vagante. Per Damasco, decide Mosca.
La Cina, a differenza degli USA, non deve quasi mai fare i conti con il rischio di un dibattito interno. Questo, in parole povere, significa che se Pechino volesse dare un segnale inequivocabile a Kimpotrebbe farlo in qualsiasi momento, e solo successivamente aver la gentilezza di comunicarlo al mondo. Se non lo ha ancora fatto, è perché non gli conviene. A tutto danno degli USA e del loro Presidente apprendista.