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July 10 2017
Come giudicare i lavori del G20 della scorsa settimana?
Cavarsela con una lettura in stile "luci e ombre" sarebbe troppo facile. Le ombre sono state nettamente superiori alle luci, in un quadro d’importanti corsi e ricorsi storici.
I no-global impegnati a manifestare, e le cui frange violente hanno tenuto in scacco le forze di polizia tedesche, hanno la stessa età politica di Vladimir Putin, parso a molti il vero vincitore del vertice. I primi sono nati nel 1999 col nome di "Popolo di Seattle", mentre nello stesso anno Putin saliva al potere in Russia come primo ministro.
Entrambi appaiono ancora in pieno momentum, e se per il Presidente russo questa non è certo una novità, trovare gli antagonisti della globalizzazione così determinati vent’anni dopo significa che il movimento ha avuto un ricambio generazionale significativo al suo interno, con l’ingresso di nuove leve, a meno di non voler pensare che chi aveva 25 anni nel 1999 a Seattle o nel 2001 a Genova abbia ancora voglia di sfilare o peggio d’ingaggiare una battaglia contro gli idranti dopo aver superato la soglia dei quaranta.
Alcuni pensano che Angela Merkel abbia perso la scommessa di far avvicinare i grandi della terra ai popoli, facendoli appunto riunire nel cuore di una città e non in un luogo isolato e bonificato com’era ormai prassi consolidata. Può darsi. Ma non sempre le prese di coscienza vengono per nuocere. Se i cosiddetti grandi nutrivano qualche dubbio sul loro grado di apprezzamento, hanno avuto ad Amburgo la risposta (discutibile, ovviamente) che un summit delocalizzato gli avrebbe negato. Forse anche questo, per eterogenesi dei fini, è pragmatismo teutonico. Mentre, senza forse, la globalizzazione rimane un processo contraddittorio e difficilmente governabile.
Donald Trump ed Emmanuel Macron esordienti, Tayyip Erdoğan quasi emarginato, Paolo Gentiloni contro tutti, senza essere Putin, e Frau Merkel maestra di cerimonia, ecco la foto di gruppo di un G20 da archiviare con quattro risultati principali:
1) l’isolamento internazionale dell’amministrazione Trump, ma non degli Usa in quanto potenza pivot per l’Occidente;
2) la centralità dell’incontro "a margine" Trump-Putin rispetto al programma principale dei lavori;
3) l’Ue senza politica sui migranti;
4) una scossa alla noiosissima campagna elettorale tedesca, per le polemiche certe che seguiranno gli incidenti, e offriranno alla Spd qualche buon argomento contro la Cancelliera.
Nel dettaglio, Trump (unico leader a sfoggiare sulla giacca la spilla nazionale invece di quella col logo del Summit), ha fatto mettere agli atti la sua controriforma ecologica: niente Cop21. Se il documento finale descrive gli accordi di Parigi come “irreversibili” non di meno Trump è riuscito a far accettare l’impegno Usa nella promozione dei combustibili fossili.
La sua è, di fatto, un’amministrazione senza vocazione globale: più che l’anti Obama, Trump sembra l’anti Clinton, nel senso di Bill. Se quello degli anni Novanta era un mondo diverso dall’attuale, pre-globalizzazione appunto, di certo il discorso di Varsavia non passerà alla storia come quello del Cairo.
Per altro, i russi hanno serenamente ignorato le parole ostili pronunciate da Trump in Polonia, rimandando il confronto a quattr’occhi. Otto con quelli di Tillerson e Lavrov, gli unici ammessi al faccia a faccia.
Più di due ore per sancire un accordo sulla Siria già entrato in vigore (si tratta di una tregua per il quadrante sud-ovest) ma tutto sommato irrilevante sino a quando i fatti, in questo caso il tempo, non confermeranno i propositi. Reggerà? I precedenti dicono di no.
Putin può dirsi soddisfatto, senza nemmeno la bandiera russa nell’occhiello della giacca porta a casa diversi risultati: il nulla di fatto contro la Corea del Nord, l’assoluzione diplomatica sul Russiagate, e l’Ucraina (primo punto citato da Lavrov in conferenza stampa) di nuovo in testa all’agenda di Mosca.
Sul tema migranti, insieme alla Cina, Mosca ha inoltre bloccato le sanzioni contro i trafficanti di esseri umani. Questo punto è particolarmente interessante dal momento che pochi commentatori (e sarebbe il loro mestiere) si sono sforzati di spiegare il perché.
La ragione è semplice: il tema non investe solo la drammatica situazione dei flussi che interessano in questi anni il Mediterraneo, ma è una questione che secondo un documento del Dipartimento di Stato americano (Trafficking in Persons Report 2017) riguarda direttamente la condizione di milioni di persone in Russia e Cina, ma anche in Uzbekistan, Iran e Afghanistan, alle prese col problema dell’identità rubata e della riduzione in stato di schiavitù. Se Mosca e Pechino avessero dato il via libera alle sanzioni, avrebbero avallato il Report americano e finito automaticamente per sanzionare se stesse.
Un grave errore di strategia quindi, al limite del dilettantismo giuridico, quello commesso dalla diplomazia europea ad Amburgo guidata da Donald Tusk e Jean-Claude Juncker, che sull’adozione delle sanzioni ai trafficanti puntava le sue principali aspettative. L’opposizione di Russia e Cina, che considerano il Report americano unilaterale e ostile, era assolutamente da mettere in conto. Ne farà le spese nuovamente l’Italia che del G20 rappresenta, non dimentichiamolo, il G7.
Gentiloni e i suoi sherpa non avevano un compito facile, consapevoli che sul tema migranti gli slogan pre-elettorali "salvinrenziani" valgono niente. Dopo Tallin e Amburgo l’Italia resta in trincea, mentre la Francia di un Macron educatamente defilato tenta di armonizzare la retorica dell’Ottantanove con la politica reale. Per ora l’audacia del presidente francese si riduce al punto di blu dei suoi abiti sartoriali, ma sui migranti lo attende una sfida importante. Dovrà dimostrare come la fraternité, parola con la quale chiuse il discorso alla Piramide del Louvre il giorno della sua elezione trionfale e che userà a Parigi venerdì prossimo, sia un concetto valido anche fuori dai comizi.
Infine Erdoğan. In queste ore Tillerson è giunto in Turchia ma non è chiaro se incontrerà il Presidente, alle prese con la manifestazione chiamata "marcia della giustizia" partita come un rivo 25 giorni fa da Ankara e arrivata ieri a Istanbul come un fiume in piena. Le opposizioni sono più vive che mai mentre ad Amburgo, anche a causa delle recenti frizioni con la Germania, Erdoğan ha sì tenuto un basso profilo ma ha anche annunciato che dopo l’uscita degli Usa dall’accordo sul clima, anche Ankara sospenderà la ratifica di Cop21.
Molte ombre dunque, in attesa della luce di Buenos Aires, prossima tappa del G20 nel 2018.