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March 02 2018
Il Russiagate ha assunto ormai il ritmo di una telenovela, con una regia giuridico-mediatica densa di flashback e anticipazioni, e non sembra destinato a una rapida conclusione. Se esso rappresenta un rischio evidente per Donald Trump, lo rappresenta anche, e in maniera ben più subdola, per il Partito Democratico americano.
In effetti i Dem, orfani di Obama e di Hillary e alla ricerca di nuovi leader capaci di porsi come alternativa al Tycoon, rischiano di restare imbrigliati nelle maglie del Russia probe.
Da una parte perché, tentando di scagionarsi, (per la nota vicenda delle mail di Hillary) ne rimangono legati alla logica di lotta congressuale fatta di colpi (bassi) a suon di dossier.
Dall’altra perché, sperando in un impeachment o quanto meno i grossi guai per Trump e per i suoi, faticano a guardare oltre l’eventuale convenienza dello scandalo e a ricostruire un’identità e una piattaforma al partito.
Eppure i temi non mancherebbero. Li esemplifica bene il candidato della West Virginia Richard Ojeda, che si prepara alle primarie e alle elezioni di Midterm del novembre 2018 in una terra dove Trump e i repubblicani letteralmente dominano.
Ojeda non sarà il nuovo campione dei democratici per le prossime presidenziali, perché gli manca la statura nazionale, ma al momento incarna una plastica rappresentazione della loro impasse.
In una terra densa di colletti blu, cioè di lavoro operaio, e in un certo senso anch’egli un blue-collar con un passato da paracadutista nell’esercito in teatri estremi come l’Afghanistan, Ojeda si pone come l’antidoto al Trump pensiero.
La sua candidatura, in un collegio dove è calcolato che un generico candidato repubblicano abbia ai nastri di partenza 23 punti di vantaggio contro un democratico generico, è la sintesi della rincorsa che attende l’asinello Dem se vorrà tornare alla guida del Paese.
Già favorevole a Trump nel 2016, ma ora ricredutosi, e quasi ucciso per un’aggressione subita durante una precedente campagna elettorale, Ojeda ricalca il pragmatismo dell’attuale Presidente. Ha la stessa capacità d’intercettare gli umori dell’America profonda, della Rust Belt, senza quelle derive snobistiche che sono costate care al partito salottiero e upper class disegnato da Hillary Clinton a sua immagine e somiglianza.
È vero, Hillary vinse il voto popolare per quasi tre milioni, ma questo non esclude che il sistema di voto negli Stati Uniti sia concepito come un aggregato dove diversi fattori determinano il successo finale, e quindi i Dem non possono rimanere ancorati agli alibi del passato (fantomatiche ingerenze russe in primis) se vogliono avere un futuro.
In una terra come la West Virginia dove il carbone rimane la principale risorsa, Ojeda, nonostante la linea dei Dem sia quella ecologica delle energie rinnovabili, si sta schierando a favore delle energie fossili, in questo abbracciando appunto il pragmatismo trumpiano. Il carbone sporco è allora emblema della crisi identitaria dei Dem?
Il parallelo è volutamente forzato, ma rende bene l’idea di una bussola smarrita, dove nessuna visione politica, o la voglia di rimboccarsi le maniche, si è al momento palesata per combattere i populismi che agitano la galassia della destra conservatrice.
Anche perché Trump, lo ha dimostrato solo in questi giorni con una dichiarazione sul gun control in controtendenza rispetto alla lobby delle armi, come avversario politico è imprevedibile e non temendo mai di smentirsi o semplicemente di cambiare idea (opportunismo o pragmatismo ognuno giudichi come preferisce) risulta molto difficile da battere.
Come il poco sofisticato Ojeda dimostra, solo quando i Dem smetteranno di sottovalutare Trump inizierà, forse, la loro faticosa risalita.