Sicurezza
October 14 2016
Il potere in Turchia ha una solida storia di censura della rete. I fatti riguardanti la “primavera araba” sono solo l’apice di una strategia che va avanti da anni e che, per ovvie ragioni di globalizzazione del web, con il tempo è diventata sempre più restrittiva. Non si tratta solo di zittire giornalisti e oppositori ma di rendere innocuo ogni piccolo bisbiglio che si eleva per criticare l’operato di Recep Tayyip Erdogan, presidente dal 28 agosto del 2014, dopo undici anni nel ruolo di primo ministro.
Solo due mesi fa, AKP, l’organizzazione che lo appoggia, paradossale acronimo di “Partito per la Giustizia e lo Sviluppo”, era caduta nel mirino di WikiLeaks a ridosso del tentato golpe di agosto, quando la piattaforma di Julian Assange aveva pubblicato migliaia di email scambiate tra i membri del partito. La risposta di Erdogan? Bloccare l’accesso al portale per i cittadini del paese, così come fatto in precedenza con tanti altri servizi.
A distanza di poco, il governo di Ankara si è ritrovato a disabilitare l’ingresso a tanti altri siti e applicazioni mobili, ben più famose e organizzate di WikiLeaks. La scorsa settimana, i cloud di Google Drive, Dropbox e OneDrive sono stati oscurati e resi irraggiungibili per migliaia di turchi. Il motivo? La diffusione, tramite i link sulla nuvola, di circa 17 GB di dati sottratti a Berat Albayrak, genero di Erdogan e ministro dell’energia e le risorse naturali.
Cosa c’è di cose riservato nelle conversazioni intrattenute sia a scopo privato che politico dal ministro? Probabilmente un bel po’ di azioni poco legali, vista la repentina rappresaglia contro gli archivi online.
Gli hacker dietro il furto di informazioni rispondo al nome di RedHack, già fautori nel 2014 della cancellazione di centinaia di bollette (pari a 650 mila dollari) a favore delle famiglie della zona di Soma, dove morirono 301 minatori della compagnia energetica locale, la Soma Electricity Production. Un’estrema difesa dunque degli interessi dei più deboli, nonostante la presa di posizione della compagnia, secondo la quale non era possibile eliminare dai sistemi le bollette emesse. Sta di fatto che quelle spese non sembrano esser state mai saldate.
Dopo aver compromesso la mail di Berat Albayrak, RedHack ha cominciato a inviare ai giornalisti turchi copie delle comunicazioni. Per questo la polizia ha arrestato e rinchiuso alcuni di loro, rei di aver fatto “propaganda a favore di un soggetto illegale”. Il botta e risposta è proseguito con la minaccia degli hacker di divulgare pubblicamente la posta elettronica se il governo non avesse rilasciato i giornalisti bloccati. Scaduto il termine, i 17 GB sono stati caricati sui vari Dropbox, Google Drive, OneDrive e anche sui server di Github, i cui IP sono stati censurati e resi indisponibili dall’interno.
Tutto finito dunque? Per niente, visto che RedHack ha avviato la condivisione del materiale tramite link diretti e file torrent, su siti differenti, anche tramite un post di Medium, dove spiega i metodi per ottenere il database. Il blackout totale a cui Erdogan sta dando seguito è la conseguenza che il gruppo si aspettava: la Turchia chiuderà l’intera rete?
La domanda non è banale se si pensa che attualmente i ministri stanno pensando a come procedere nei confronti di un passaparola digitale che non può essere arginato.
Il problema è che la decisione di bloccare la nuvola non penalizza solo gli utenti finali ma anche tante aziende che sfruttano il cloud per lo scambio di file, dentro e fuori i confini nazionali. Non a caso, su Twitter sono molti gli imprenditori che mostrano la loro frustrazione per una situazione decisamente inaccettabile. Il controllo mediatico di Erdogan può valere per i canali tradizionali ma si è dimostrato insufficiente del mondo online, dove soggetti come RedHack sanno come aggirare i divieti.