Neanche di fronte alla guerra l’Europa riesce a trovare la sua unità. Ci troviamo paradossalmente di fronte agli stessi schieramenti “ideologici” che precedettero e accompagnarono le prime fasi della Seconda guerra mondiale. Non sono uno storico, ma ci sono elementi che colpiscono, brutalmente semplici. Francia e Belgio mostrano tutta la loro fragilità, sono il ventre molle dell’Europa, paesi schiantati e messi in ginocchio dall’assalto terroristico di manipoli di jihadisti cresciuti nelle periferie (spesso neppure troppo periferiche) delle città.
Stupisce e mette paura l’incompetenza, l’inefficacia dell’intelligence prima francese, poi belga, così come la loro reazione agli attentati, il non essere in grado di prevenire, né di reprimere. Perfino un interrogatorio, per i belgi, diventa una palude nella quale impantanarsi. Perfino una cunetta erbosa si trasforma per i francesi in un K2: tornano alla mente le immagini tragicamente ridicole delle forze speciali a Parigi che dopo Charlie Hebdo danno la scalata a un prato in pendenza, bardate e armate di tutto punto ma sconfitte da un ciuffo d’erba bagnata.
Ambigua pure la reazione di Hollande, che da un lato affronta a Versailles, dopo il 13 novembre, il più importante discorso della sua vita “dichiarando” che la Francia è in guerra e poi ordinando i primi raid su Raqqa, ma che in seguito appare più come il generalissimo in penne e piume di un esercito sciovinista dal quale non ci si può aspettare che una parata.
Del Belgio neanche vale la pena parlare. Lo spettacolo incomprensibile dei fallimenti poliziesco/investigativi è un ammonimento per tutta l’Europa. La Francia fu invasa facilmente da Hitler. A difendere il mondo libero fu la reazione britannica, il riflesso imperiale del Regno Unito che resistendo aprì la strada al decisivo intervento americano. Da allora, gli Stati Uniti sono stati la vera balìa dell’Europa in termini di sicurezza. Oggi che un presidente nuovo (in tutti i sensi) ha scelto di abbandonarci al nostro destino perché non è interesse degli americani mettere i propri stivali nel fango del deserto africano o in Medio Oriente, il continente europeo torna alla mercè dello spettro della guerra.
Londra, con le secche e concrete dichiarazioni e interviste di Tony Blair che elenca le cose da fare e sprona senza retorica l’Europa ad agire, si rivela ancora una volta un baluardo morale e militare per tutti noi. Quanto all’Italia, fa la furba. Come sempre. Spera di non essere colpita dagli stragisti macellai, anche perché non ha banlieu di seconda e terza generazione totalmente fuori controllo come la Francia, né le percentuali d’immigrati (dis)integrati e radicalizzati che ci sono in Francia e in Belgio. Perciò cerca di evitare la compromissione in Libia, rinuncia a partecipare ai raid in Siria, e consegna all’Intelligence le chiavi della propria incolumità.
Finché la situazione non precipiterà, coinvolgendoci con la stessa inesorabile logica dell’ultima guerra mondiale. Spaventa la sproporzione tra le parole di Blair, un leader consapevole della natura dei problemi che stiamo affrontando, e quelle di Federica Mogherini che dopo essersi asciugata le lacrime versate ad Amman ha impartito una sua lezione di tolleranza e apertura sostenendo che bisogna uscire dalla contrapposizione tra “noi” e “loro”. Parole che ai tempi di Hitler avrebbero avuto un’eco incongrua, seppur ovvia: i tedeschi non erano tutti nazisti, proprio come i musulmani non sono tutti dell’Isis. Vero, ma ha senso perder tempo a declinare l’ovvio, mentre il nemico ti dilania con chiodi e vetro dentro le bombe all’aeroporto? L’Europa deve quindi ritrovare un linguaggio unitario, prendere coscienza di essere sotto attacco. E agire.