Costa Concordia: per l’ambiente non fu un disastro

Un anno dopo lo sciagurato inchino del comandante Francesco Schettino (il 13 gennaio 2012), la nave è ancora lì, adagiata su un fianco a pochi metri dalla costa del Giglio. Quasi aspettasse. Sembra il giocattolo rotto e abbandonato da un bambino che, tornato in città dopo le vacanze, ne conserva solo uno sbiadito ricordo. C’era musica a bordo, i balli, il cinema in 4D, il casinò. Ora l’unico rumore è quello delle onde che schiaffeggiano lo scafo.

Il simulacro di quella che fu la maestosa Costa Concordia rimarrà lì, davanti a Punta Gabbianara, almeno fino al prossimo settembre, perché l’operazione di recupero è complessa, i tempi si sono dilungati e i rischi di provocare un disastro ambientale sono alti. Disastro ecologico finora scampato, almeno secondo i primi risultati dello studio sulla salute dell’ecosistema (partito a ottobre, si protrarrà fino alla rimozione del relitto) affidato all’Università di Siena. Studio che Panorama è in grado di anticipare.

«Stiamo parlando di risultati embrionali ma significativi» spiega Silvano Focardi, coordinatore della ricerca commissionata dalla Regione Toscana. «Nelle due aree vicine alla nave, fuori dalla zona interdetta o di cantiere, l’impatto è stato trascurabile, come dimostra l’ottima condizione delle specie utilizzate come bioindicatori: il riccio di mare, la triglia di scoglio e lo scorfano. Non abbiamo riscontrato manifestazioni di stress chimico». Un esempio? In presenza di sostanze neurotossiche nel cervello dei pesci si alterano i meccanismi di trasmissione dell’impulso nervoso; negli esami effettuati in laboratorio non c’è traccia di questi disturbi.

Insomma, la catastrofe ecologica, temuta dalle associazioni ambientaliste, è stata evitata. Anche gli altri due monitoraggi avviati dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana (Arpat) e dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) suggeriscono la stessa conclusione. Il primo tiene sotto controllo la qualità dell’acqua dal giorno del naufragio, e nelle ultime analisi di dicembre evidenzia solo «una leggera presenza di tensioattivi (contenuti nei saponi e nei detersivi presenti a bordo, ndr) e solventi aromatici», mentre i test di tossicità sono negativi.

L’Ispra invece usa metodi di biomonitoraggio, in particolare su batteri, alghe ed echinodermi, per verificare eventuali problemi dovuti a sostanze contaminanti. Anche in questo caso i risultati confermerebbero il buono stato dell’habitat marino e l’efficacia del lavoro svolto dai 400 tecnici che seguono le operazioni. Possiamo dunque archiviare il pericolo e magari depennare al comandante Schettino l’accusa distruzione di habitat protetto (reato che, da solo, vale 18 mesi di carcere)? Presto per dirlo. Al momento non si è rilevato alcun danno ambientale, a eccezione ovviamente della devastazione del fondale dove la Concordia, con i suoi 293 metri di lunghezza e 114.500 tonnellate di stazza, si è incagliata: «Al Giglio i fondali sono ricchissimi di cystoseire, posidonie, gorgonie, spugne, molluschi, crostacei e celenterati, rimasti schiacciati assieme a miriadi di altri organismi» avverte Francesco Cinelli, esponente del comitato tecnico di Marevivo e docente di ecologia all’Università di Pisa. «Più la nave rimarrà adagiata sul letto di roccia, più i danni saranno gravi e il recupero dell’ecosistema sarà lento».

Adesso l’attenzione è concentrata sulla rimozione del relitto e sul suo trasferimento nel porto di Piombino per la demolizione che, non a caso, sono slittati di quasi un anno tra gli strali degli abitanti del Giglio e le proteste di Enrico Rossi, preoccupato presidente della Regione Toscana. Il transatlantico, sebbene svuotato del carburante, è pieno di vernici, solventi, batterie, oli lubrificanti, detersivi, prodotti di clorazione delle piscine, ftalati, ritardanti di fiamma e metalli di vario genere. Senza considerare l’enorme quantità di prodotti alimentari in decomposizione che dovevano servire per le 4.229 persone a bordo, tutto in parte disciolto nell’acqua che stagna dentro lo scafo. Non bisogna avere una laurea in scienze ambientali per capire che, muovendo il relitto, il pericolo che il materiale fuoriesca e si riversi in mare è alto. «In quel momento critico dovrà essere posta la maggiore attenzione dal punto di vista del monitoraggio» conclude Focardi «per valutare realmente l’impatto sull’ecosistema marino».

Leggi Panorama on line

YOU MAY ALSO LIKE