Countdown verso il 30 luglio: il bivio del Pd

Al di là delle schermaglie sulle regole congressuali, fisiologiche in un partito in cui le primarie tendono a personalizzare i conflitti, il primo, vero, insidioso nodo politico con cui il Pd dovrà fare i conti, di qui a qualche settimana, si chiama Silvio Berlusconi. Più precisamente: Berlusconi e i suoi guai giudiziari. La prudenza è d’obbligo, dal momento che nessuno può dire quale sarà il verdetto della Cassazione. Ma se il prossimo 30 luglio, la sentenza di colpevolezza per la vicenda dei diritti Mediaset diventasse definitiva, il caso arriverebbe in Parlamento e il Pd si troverebbe nella drammatica situazione di dover scegliere se salvare il governo o “espellere” il Cavaliere dal Senato. Con la certezza di lacerazioni profonde al proprio interno e nei rapporti con la propria opinione pubblica.

Se la condanna a 4 anni di carcere con interdizione dai pubblici uffici fosse confermata, la Giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama sarebbe costretta a decidere sull’ineleggibilità del senatore Berlusconi. E in quel caso, messo di fronte a una scelta secca, senza alcuna possibilità di mediazione, il Pd dovrebbe pronunciarsi per il si o per il no. Sapendo che nell’uno come nell’altro caso le conseguenze politiche sarebbero rilevanti. Se infatti decidesse di votare per la decadenza dalla carica del leader alleato, si aprirebbe una ferita profonda con il Pdl, il governo presieduto da Enrico Letta vacillerebbe, l’ala democratica favorevole alle larghe intese insorgerebbe e le fibrillazioni nel partito potrebbero portare persino a una scissione a destra. I settori più moderati potrebbero confluire nel movimento centrista di Mario Monti. O addirittura dar vita a una nuova formazione politica, ipotesi accarezzata discretamente ma con sempre più convinzione da diversi dirigenti e parlamentari.

Se invece dovesse decidere per il no, Berlusconi sarebbe salvo e, con lui, il governo. Ma i contraccolpi, in questo caso, sarebbero molto seri nei rapporti con la base e l’elettorato del Pd, dove l’antiberlusconismo è assai più radicato che ai vertici o fra i quadri intermedi del partito. Le proteste davanti al palazzo di Montecitorio e nei circoli territoriali per la nascita del governo delle larghe intese sono un ricordo ancora troppo fresco e traumatico perché quelle scene possano ripetersi. La rivolta finirebbe per drammatizzare  conflitti e spaccature, con prevedibile esodo di dirigenti, militanti ed elettori verso Sel e Movimento 5 Stelle.

Scenari drammatici. Ma al momento ancora ipotetici. Va messa nel conto, infatti, anche la possibilità che a togliere le castagne dal fuoco a tutti sia proprio la Cassazione. Nel Pd, per non dire del Quirinale, c’è molta irritazione per la fretta con cui il Pdl ha reagito alla decisione dei giudici di accelerare il processo. Una reazione ritenuta a dir poco scomposta dal punto di vista politico e gravemente scorretta dal punto di vista istituzionale. Sia dal Pd che dalla Presidenza della Republica probabilmente sono partiti inviti alla moderazione e ad attendere il verdetto finale: la fretta della magistratura non può essere letta automaticamente come il preannuncio di una condanna definitiva.

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