Covid-19. Perché tutti puntano sugli anticorpi monoclonali
Sono super anticorpi in grado di fermare l'ingresso nelle cellule del Sars-Cov 2 (il vero nome del coronavirus, che tutti chiamano Covid-19 ma quella è la malattia); e sono anche la prima mirata risposta farmacologica alla pandemia: tutti i rimedi fin qui usati negli ospedali di tutto il mondo (dal remdesivir al desametasone, passando per l'enaxaparina ) sono medicinali mutuati da altre malattie e testati sperimentalmente anche per il nuovo virus, mentre con lo studio sugli anticorpi monoclonali entriamo nel vivo della ricerca dedicata a terapie elaborate esclusivamente per curare i malati da Sars CoV 2.S2E12 e S2M11, i due anticorpi, sono frutto del lavoro di un team internazionale - guidati da scienziati dell'Università di Washington - al quale hanno partecipato anche Massimo Galli, Arianna Gabrielli e Agostino Riva dell'ospedale Sacco di Milano.
E finora hanno dimostrato di riuscire a prevenire l'infezione nei criceti: se la loro efficacia sarà quindi confermata intest clinici, saranno un'arma in più a disposizione dei medici, in attesa del vaccino.
Lo studio è stato pubblicato su Science, che ne ha spiegato anche il meccanismo d'azione: somministrati a piccole dosi in combinazione, o anche singolarmente, i due anticorpi monoclonali riescono a fermare l'attacco del virus ai recettori Ace2 delle cellule. E sono stati sintetizzati in laboratorio partendo da 800 anticorpi provenienti da 12 pazienti guariti da Covid-19 (gli anticorpi, lo ricordiamo, sono molecole del sistema immunitario programmate per riconoscere una minaccia, virale o batterica, e sconfiggerla).
L'anticorpo S2M11, inoltre, sarebbe in grado di inibire anche la proteina Spike, la «punta» utilizzata dal coronavirus per penetrare nelle cellule umane.Lo studio di Washington non è l'unico a puntare sugli anticorpi monoclonali: il team dello scienziato Rino Rappuoli di Toscana Life Sciences - già scopritore del vaccino contro il meningococco B - lo scorso agosto ne ha isolati tre molto potenti, già in fase di produzione industriale: l'obiettivo è iniziare una sperimentazione sull'uomo entro fine anno e mettere a punto un farmaco complementare al vaccino.
Anche al San Raffaele di Milano è stata appena individuata una classe di anticorpi molto efficaci nel combattere l'infezione e ridurre la mortalità di oltre il 60 per cento. La ricerca, pubblicata sul Journal of Clinical Investigation, è stata condotta nei laboratori dell'Istituto di Ricerca sul Diabete diretto da Lorenzo Piemonti, professore associato all'Università Vita-Salute San Raffaele. Mentre il lavoro rientra nello studio clinico osservazionale su Covid-19 coordinato da Alberto Zangrillo, prorettore dell'Università Vita-Salute San Raffaele e direttore delle Unità di Anestesia e Rianimazione Generale e Cardio-Toraco-Vascolare, e da Fabio Ciceri, direttore scientifico dell'IRCCS Ospedale San Raffaele e docente di Ematologia e Trapianto di Midollo dell'ateneo.
«Utilizzando la piattaforma tecnologica già ampiamente sperimentata per studiare l'autoimmunità nel diabete di tipo 1» spiega Piemonti a Panorama «siamo riusciti a mappare la risposta anticorpale di 509 pazienti ricoverati nel nostro Istituto. E abbiamo identificato un particolare tipo di anticorpi che si sono rivelati efficacissimi nella lotta al Sars-CoV-2.
È una operazione fondamentale, perché proprio partendo da questi anticorpi e monitorandoli nei pazienti si può poi arrivare a un protocollo terapeutico e alla produzione di un vaccino. Del resto, gli anticorpi sono molecole che sappiamo studiare in maniera adeguata, con tecniche più che sperimentate, e i risultati sono quindi solidi. Inoltre, abbiamo capito che le risposte anticorpali nei pazienti Covid sono complesse, e che parte di queste risposte determinano la percentuale di mortalità e di forme gravi della malattia. Da qui l'importanza di tutti gli studi sugli anticorpi che, al mondo, la comunità scientifica sta portando avanti».
Ma non è l'unica scoperta del San Raffaele: i ricercatori hanno testato il siero dei malati anche per verificare la presenza di anticorpi nei confronti di altri virus, cui quello dell'influenza stagionale e i coronavirus responsabili del raffeddore. E le conclusioni sono decisamente positive: «In circa il 20 per cento dei pazienti analizzati abbiamo trovato tracce di una recente risposta anticorpale al virus dell'influenza: cosa non strana, dato che lo studio è stato condotto nei mesi di marzo e aprile, quando c'è ancora una "coda" influenzale. Ebbene, la presenza di questa risposta anticorpale non si associava a un esito clinico negativo: quindi possiamo dire che avere contratto da poco l'influenza non riduce la possibilità di guarire».Un segnale positivo, dato che andiamo incontro alla stagione fredda, ma che non deve farci abbassare la guardia «e soprattutto non ci deve dissuadere dal seguire la raccomandazione degli esperti a sottoporsi alla vaccinazione anti-influenzale» conclude Piemonte.
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