Emergenza Covid: Lombardia e Veneto a confronto
- Panorama ha condotto un'indagine approfondita per capire come mai la regione più ricca d'Italia è stata sopraffatta dal coronavirus. L'inchiesta è pubblicata in cinque puntate a partire dal 12 maggio.
- Prima puntata: il modello di Codogno paragonato a quello di Vo' Euganeo. Come l'epidemia è dilagata dal Lodigiano in tutta la regione.
Gli occhi del mondo sono puntati sulla Lombardia. «Che cos'ha reso la più ricca regione italiana così vulnerabile al coronavirus?» si è chiesto il magazine britannico New Statesman. «Perché la Lombardia soffre così tanto sotto il corona» è stata la domanda della tedesca Sueddeutsche Zeitung. «La situazione a Milano è una bomba» ha lanciato l'allarme il quotidiano francese Le Parisien. «La tempesta perfetta: il disastro del virus nella regione italiana della Lombardia è una lezione per il mondo» ha titolato un'inchiesta del Los Angeles Times, pubblicata anche sul sito della tv France 24.
Con 80.723 casi confermati e 14.839 decessi, la Lombardia risulta la regione più colpita in Italia dal Covid-19. Perché? È un interrogativo che sarà oggetto di studi scientifici negli anni a venire. Nell'attesa, Panorama ha condotto un'inchiesta per cercare di iniziare a capire come mai la più ricca regione italiana è stata sopraffatta dal coronavirus. Interpellando epidemiologi e medici di base, virologi e autorità sanitarie, ha cercato di capire perché il fiore all'occhiello del sistema sanitario italiano, considerato dall'Oms il secondo migliore al mondo, non sia stato in grado di rispondere alla sfida della pandemia.
Anzitutto va sottolineato che la regione guidata da Attilio Fontana è una delle regioni più popolose d'Italia, con una media nel 2018 di 422 abitanti per chilometro quadrato contro i 200 della media nazionale secondo l'Istat. È anche vero che è la regione più inquinata d'Italia e una delle più inquinate d'Europa, come si evince da uno studio pubblicato su Environmental Research. Altrettanto vero è che è stata una delle primissime regioni a essere colpita nel mondo occidentale dal Covid-19. Come ha spiegato a Panorama l'assessore lombardo della Sanità Giulio Gallera, «qui c'è stato un fungo atomico che ha travolto tutti».
Tutto vero, eppure non basta. Gli addetti ai lavori che hanno studiato l'argomento ritengono che questi distinguo non siano sufficienti per giustificare la virulenza con cui l'epidemia ha colpito la Lombardia. E lo argomentano portando come termine di paragone il Veneto.
Già, il Veneto. Se il primo caso di Covid-19 in Italia è effettivamente stato scoperto il 20 febbraio 2020 a Codogno (Lodi), il primo decesso è avvenuto il giorno dopo, il 21 febbraio, all'ospedale di Schiavonia a Monselice (Padova). Il nome della vittima era Adriano Trevisan, 77 anni, residente a Vo' Euganeo.
I due focolai, Codogno e Vo' Euganeo, si sono quindi sviluppati in contemporanea. Ma la risposta dei due sistemi sanitari regionali è stata diversa. La sera stessa della morte di Trevisan, il presidente della regione Veneto Luca Zaia ha annunciato che l'ospedale di Schiavonia sarebbe stato chiuso e che Vo' Euganeo sarebbe stata messa in quarantena. Due giorni dopo, la cittadina di quasi 3.300 abitanti è diventata zona rossa ed è rimasta tale fino all'8 marzo.
Anche a Codogno e dintorni è stata istituita una zona rossa che ha coinvolto 50.000 persone. L'ineccepibile provvedimento ha portato a un efficace contenimento del contagio. Ma nella cittadina lombarda prima si era verificato un altro problema. Come ha denunciato sollevando molte polemiche il primario dell'ospedale Sacco di Milano Massimo Galli, a Codogno l'epidemia si è innescata «nel contesto di un ospedale».
Anche il primo ministro Giuseppe Conte ha sollevato qualche dubbio sulla «gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi». Sì, perché nel piccolo ospedale di Codogno i medici, colti di sorpresa, hanno tenuto il paziente uno in pronto soccorso insieme agli altri malati prima che un'anestesista avesse l'intuizione di somministrargli il tampone per il Covid-19.
E non solo. Come racconta il dottor Paolo Schianchi, medico di medicina generale a Felino (Parma), non lontano da Codogno, «molti malati di Covid del Lodigiano sono stati smistati in altri ospedali della Regione Lombardia, non dedicati esclusivamente al coronavirus». A partire dal presunto paziente zero di Codogno, che è stato portato al San Matteo di Pavia. Anche questo ha contribuito non poco a diffondere il contagio.
Per non parlare della scelta successiva di portare malati Covid nelle case di riposo. Come ha sottolineato l'assessore Gallera, questi ovviamente non sono stati messi negli stessi reparti dei lungodegenti. Però nei primi tempi il personale spesso era sprovvisto di protezioni. Questa scelta ha fatto sì che il contagio si diffondesse anche nei reparti dove erano ricoverati gli anziani, provocando quelle centinaia (se non migliaia) di morti sospette su su cui sta indagando la Procura di Milano.
«Nella nostra casa di riposo non sono mai arrivati malati di coronavirus» racconta il dottor Paolo Schianchi, il medico di Felino che segue la Casa degli anziani di Collecchio. «Comunque abbiamo creato un reparto Covid per i nostri malati, dove entriamo bardati come in ospedale e quando usciamo ci disinfettiamo tutti». Gli fa eco il dottor Bruno Di Daniel da Maserada sul Piave (Treviso): «Anch'io lavoro nella casa di riposo del mio paese. Il 22 febbraio ho chiuso l'accesso a tutti i familiari e fatto mettere le mascherine a tutti gli operatori. Il risultato è che tutti gli 86 ospiti e tutti i 76 operatori sono negativi: abbiamo lo 0% dei casi. Però continuiamo a tenere tutto chiuso. I parenti premono, poveracci, ma possono parlare con i loro cari solo con videochiamate».
E che dire dell'ospedale di Alzano Lombardo, che era stato chiuso il 23 febbraio dopo aver registrato il primo caso di Covid-19 della provincia orobica e riaperto poche ore dopo in mezzo a mille polemiche? «La trasmissione nosocomiale sembra aver avuto un ruolo importante in Lombardia» denuncia lo studio intitolato «Lombardia e Veneto: due approcci a confronto», pubblicato il 18 aprile sulla rivista online Scienza in rete.
In Veneto, già nella notte fra il 21 e il 22 febbraio, dopo il primo decesso, l'ospedale di Schiavonia è stato immediatamente chiuso all'accessso dei pazienti e dei visitatori. E all'esterno è stata allestita una tendopoli con 96 posti. Nel giro di poche ore, sono state montate altre tende di fronte agli ospedali di Verona, Padova e Belluno per non contaminare i nosocomi da affetti Covid.
«Qui all'ospedale di Padova la Protezione Civile ha subito montato nove tende per sottoporre a triage e a eventuale tampone tutte le persone che temevano di avere contratto il virus» spiega Daniele Donato, il direttore sanitario dell'ospedale che è stato individuato da Zaia come hub regionale per il coronavirus. «Chi lavorava (e lavora, perché sono attive ancor oggi) in queste tende non entrava in ospedale e viceversa: tenendo i compartimenti stagni, abbiamo evitato che il contagio entrasse all'interno della struttura ospedaliera. Al tempo stesso, abbiamo dotato di dispositivi di protezione tutto il nostro personale sanitario: sia quello che lavorava nelle tende sia quello che lavorava all'interno dell'ospedale».
Conferma Luciano Flor, direttore generale dell'azienda ospedaliera di Padova: «Noi abbiamo monitorato tutti i nostri 8.000 dipendenti con i tamponi. Il risultato è che nessuno è stato ricoverato, nessuno è morto e nessuno è finito in rianimazione. Al momento abbiamo solo una trentina di persone positive».
Una volta individuati i pazienti affetti da Covid, coloro che avevano necessità di ricovero erano trasferiti direttamente nel reparto Covid dedicato, nella palazzina Malattie infettive. Ma la Regione Veneto ha anche riconvertito in «ospedali Covid», cioè dedicati solo a chi ha contratto il virus, una serie di nosocomi pre-esistenti e riabilitati a questa nuova funzione: in tutto sono nove. Uno di questi è quello di Schiavonia, quello in cui si è verificato il primo decesso, che è stato riaperto dopo risanamento come «full Covid» il 6 marzo. In Lombardia, invece, gli ospedali full Covid sono tre: l'ospedale da campo inaugurato in una tendopoli a Crema il 25 marzo, quello aperto il 6 aprile alla Fiera di Milano e quello aperto il giorno dopo alla Fiera di Bergamo. Ma se il primo è già in fase di smantellamento, gli altri due potrebbero chiudere a fine maggio.
Come si legge in un saggio pubblicato dalla Harvard Business Review il 27 marzo, rispetto alla Lombardia «il Veneto ha adottato un approccio molto più proattivo verso il contenimento del virus». Come spiega l'articolo intitolato «Lezioni dalla risposta italiana al coronavirus», la strategia del Veneto è stata articolata su più fronti. Anzitutto, i tamponi sono stati fin da subito fatti ai casi sintomatici e a quelli asintomatici. Poi sono stati tracciati i potenziali positivi e, se qualcuno risultava positivo, venivano sottoposti al tampone tutti i suoi familiari, amici e i vicini che erano stati in contatto ravvicinato per più di 15 minuti. Una forte enfasi è stata poi attribuita alla diagnosi e alla cura a domicilio. Sono stati infine compiuti sforzi specifici per monitorare e proteggere i professionisti del settore medico, quelli a contatto con le popolazioni a rischio (come gli operatori delle case di riposo).
«La Lombardia ha optato invece per un approccio più conservativo» continua l'analisi di Harvard datata 27 marzo. «Su base pro capite, ha finora condotto la metà dei test condotti in Veneto e ha avuto un'attenzione molto più forte solo ai casi sintomatici - e ha finora effettuato investimenti limitati nella tracciatura proattiva, nell'assistenza e nel monitoraggio domiciliare nonché nella tutela degli operatori sanitari».
Commento del dottor Andrea Mangiagalli, il medico di famiglia di Pioltello (Milano) che insieme ad altri colleghi ha curato i pazienti Covid a casa loro con una terapia a base di clorochina ed eparina. «In questo marasma» spiega, «la medicina generale, che in Veneto ha giocato un ruolo così importante, qui in Lombardia è stata totalmente abbandonata a se stessa». Conferma lo studio di Scienza in rete: «La Lombardia ha scelto un approccio che si è basato principalmente sulla sua rete di servizi clinici, mentre il Veneto ha attuato una vasta strategia comunitaria che si è basata su una più solida rete sanitaria pubblica e sull'integrazione locale dei servizi».
A elaborare la lungimirante strategia veneta è stato il professor Andrea Crisanti. Ordinario di Microbiologia, il virologo è rientrato in Italia sei mesi fa dall'Imperial College di Londra, dopo essere stato a Basilea e Heidelberg, scegliendo Padova («l'unica università italiana per cui avrei lasciato Londra»). Come ha scritto il Corriere del Veneto, «è lui l'ideatore del modello veneto, che ora studiano (e copiano) in mezzo mondo», «è lui il "faro" che secondo Zaia ha indicato la via quando la comunità scientifica pareva un formicaio impazzito colpito dal calcio del coronavirus».
È stato Crisanti a contattare il presidente Luca Zaia. «Era il 23 o il 24 febbraio» racconta a Panorama. «Gli ho detto che andava bene fare i tamponi a tutti, ma che occorreva fare un secondo round per intercettare quelli che erano sfuggiti al primo. E da lì è nata la nostra collaborazione: il mio laboratorio è diventato il centro di riferimento per la Regione Veneto sul Covid». Al Corriere del VenetoCrisanti ha detto, ricordando i primi giorni della pandemia: «Ho un solo rimpianto: non aver gridato più forte. I morti della Lombardia sono nati in quella settimana folle, dopo i primi morti di Codogno».
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