Lifestyle
July 25 2019
Mentre gli ospiti dell’albergo staccano la spina, loro le attaccano: quella del computer o del tablet, di uno o due telefonini. L’unica chiave che chiedono alla reception non è della stanza, ma del Wi-Fi. Sono concentrati però rilassati, di sicuro contagiati dal clima vagabondo del luogo: li vedi battere sui tasti con una frenesia alleggerita, piacevolmente stravaccati su un divanetto; li noti arrampicati su uno sgabello a blaterare numeri dentro un auricolare, con un cocktail lì accanto a fargli compagnia. Sono il popolo dei lavoratori da hotel, generazione trasversale che convoglia scelta e necessità: devono giostrarsi tra scartoffie, scadenze e videoconferenze, tanto vale farlo in un ambito piacevole che profuma di altrove. Dove hanno a disposizione bar, ristoranti, in alcuni casi spa, palestra e piscina. Dovere che confina con il piacere.
Dopo aver fatto uscire l’ufficio dall’ufficio e averlo riversato nelle solitudini delle case, dopo averlo traslato in un coworking che, in fondo, è un ufficio mascherato, l’albergo sembra il candidato giusto per attrarre nomadi digitali senza fissa scrivania, uomini d’affari e professionisti in movimento, startupper a caccia di stimoli e contagi creativi. Una tribù di ex clandestini, benvenuti ora che le strutture hanno fiutato l’affare e si attrezzano per accoglierli. L’attitudine gronda profitti: più consumazioni di piatti e bevande, nuovo business in spazi spesso desertici, leggi le hall o loro porzioni ritagliate ad hoc. Qui staziona anche chi non soggiorna in hotel, perché dorme altrove o è residente in città. Succede da New York (icone da pellegrinaggio sono 11 Howard a Soho e Public hotel, ai margini dell’East Village) a Los Angeles (Montrose e Intercontinental, entrambi a West Hollywood) o San Francisco (il Roam, in zona Alamo Square): la tendenza, dunque, è già esplosa nelle metropoli Usa, fotografata da articoli plurimi di TheNew York Times, Forbes,AD. E sta arrivando con prepotenza in Europa.
Le grandi catene ci scommettono in blocco: Sheraton dichiara d’ispirarsi alle piazze delle città e ha un piano per moltiplicare le aree collaborative nelle sue strutture del Vecchio Continente; Accor ha acquisito il marchio Nextdoor per fondare Wojo, una rete di coworking. Li inserirà nei suoi alberghi, l’ha già fatto al Mercure Montmartre Sacré-Coeur di Parigi. Lo stesso succede al W (parte di Marriott International) di Leicester Square a Londra, dove c’è lo spazio di lavoro Haus con il suo design raffinato e habitué sempre indaffarati. Al Fairmont di Montecarlo, invece, si sbeffeggiano i forzati da ufficio dall’Octagon, scrivanie e divani con vista mare, sottofondo di gabbiani e onde di aria condizionata, diritto umano inalienabile per chi indossa la giacca d’estate, anche solo per il tempo di una videochiamata. Per 20 euro al giorno sono compresi accesso a internet fulmineo, acqua, the, caffè e stuzzichini a volontà: «E tranquillità illimitata. Non c’è nessun cameriere che reclama ordinazioni per occupare la sedia, come avviene di regola in un bar» assicura Claudia Batthyany, direttore marketing dell’albergo. «Oltre agli stranieri, abbiamo vari clienti locali che cercano tranquillità» spiega: «Gli hotel sono cambiati. Non sono più luoghi in cui sentirsi intrusi se non si ha una camera prenotata».
In Italia non siamo alle avanguardie, bensì a un momento di passaggio verso la maturità. Strutture lussuose come il Rome Cavalieri nella capitale o il Four Seasons di Milano, restano salotti imprescindibili per colazioni e aperitivi di lavoro, preceduti o seguiti da sessioni al pc in team o in solitaria. Fin qui, vecchie liturgie aggiornate alle etichette della contemporaneità. Sempre nel capoluogo lombardo, la lobby dell’NH Milano Touring è stata appena riprogettata e trasformata in un ambiente aperto e informale: proprio accanto alla reception si apre una zona di coworking con un tavolo centrale fornito di prese per rinvigorire le batterie e, nei paraggi, un angolo con trionfo di caramelle per una pausa dolce.
Per scovare le origini tricolore della tendenza bisogna però spingersi fino a Fiorenzuola d’Arda, comune vicino Piacenza. Qui, nel 2017, è nato Bnbiz: «Abbiamo ribaltato la prospettiva. Siamo partiti dall’idea di creare un coworking e ci abbiamo aggiunto un albergo» racconta Dario Ambroggi, ideatore della struttura. «In provincia» spiega «uno spazio condiviso solo per il lavoro non era sostenibile. Abbiamo pensato a un pacchetto su misura per i viaggiatori business. A loro diamo stanze con tutti i comfort e trovano un ambiente che diventa il loro ufficio provvisorio». Aperto 24 ore su 24, anche a chi non soggiorna lì: «Siamo in una posizione un po’ sfigata» ammette ridendo Ambroggi «ma la formula funziona».
Altro precursore è stato The Student Hotel di Firenze, inaugurato lo scorso anno in un palazzo storico ristrutturato ad hoc. Al suo interno ecco il coworking TSH Collab, presente anche in altre città europee: «È un luogo vivo, dove si può stare per un intervallo breve o lungo. Ci sono persino aziende che l’hanno scelto come sede. I loro clienti o collaboratori vengono qui, dormono nell’albergo e ci lavorano per il tempo che gli serve» dice Maria Piovano, responsabile di TSH Collab per il Sud Europa. Tra gli habitué c’è Monica, americana di Seattle, impiegata in una società informatica: «Ho la borsa della palestra sotto la scrivania e a mezzogiorno, ogni giorno, vado ad allenarmi nella palestra dell’hotel. Non ho scuse, è a due minuti dalla mia postazione». Lando, assorbito dalla sua start-up, non si concede invece molte distrazioni: «Però, quando in ascensore incontro gli ospiti bagnati fradici in accappatoio, reduci dalla piscina sul tetto» racconta «immediatamente mi rilasso. Quest’atmosfera leggera ti apre la testa, aiuta a non prendere le cose troppo sul serio». E poi niente colleghi rancorosi, luci al neon opprimenti, distributori automatici scadenti. L’ufficio in hotel è un inganno a fin di bene, un’illusione ottica innocua: basta sollevare gli occhi dallo schermo per sentirsi dentro una vacanza.