Dal Mondo
December 14 2021
Lunedì 13 dicembre, la lira turca è di nuovo crollata in rapporto al dollaro: un fatto che ha obbligato la Banca centrale (peraltro nota per avere scarse riserve) ad intervenire per la quarta volta nelle ultime due settimane vendendo dollari e innescando un rimbalzo della lira dopo che era scesa a 14,99 sul biglietto verde. Chiunque stia osservando i dati economici della Turchia e i continui crolli della sua valuta, ormai, pensa che le autorità di Ankara stiano viaggiando su una macchina lanciata a 300 km all’ora in contromano e diretta contro un muro. Nonostante questo gli “yes man” che compongono il circolo di potere del quale si circonda Recep Tayyip Erdoğan -da qualche tempo convinto anche di essere un grande economista- sono certi che i continui tagli ai tassi di interesse e quindi il costo del denaro basso rilanceranno il Paese; misure volute da Erdoğan per stimolare e quindi in qualche modo “dopare” la crescita economica della Turchia e aumentare il potenziale di esportazione con una valuta competitiva.
Gli effetti indesiderati della manovre di Erdoğan
In verità quello che sta accadendo dopo le mosse avventate di Erdoğan in versione “banchiere centrale”(dal 2019 ha licenziato quattro governatori della Banca centrale senza contare le decine di funzionari e vice direttori) è che la lira turca quest’anno si è svalutata di oltre il 45% (l’81% del suo valore dal 2012), sul dollaro americano, un fatto che sta mettendo in ginocchio la Turchia che esporta tanto ma che è fortemente dipendente dalle importazioni per la produzione di beni, dagli alimenti ai tessili, un dato che ha un impatto diretto sul prezzo dei prodotti di consumo oltre all’esplosione dell’inflazione oramai fuori controllo.
La stessa Banca centrale, ormai controllata in modo ferreo al pari delle altre istituzioni da Recep Tayyip Erdoğan, ha annunciato che entro fine anno l’inflazione potrebbe toccare il 24% circostanza che il presidente in diretta televisiva ha commentato così: «Come dico sempre, il tasso di interesse è la causa, l’inflazione è il risultato. Stiamo tagliando i tassi di interesse ora e, se Dio vuole, vedremo tutti che anche l’inflazione diminuirà», parole che hanno fatto venire i sudori freddi agli economisti turchi, e non solo.
Ulteriore dato che certifica il fallimento delle misure volute dal presidente turco è quello dell’agenzia indipendente Istanbul Planning Agency voluta dal sindaco di Istanbul (che in molti vedono come lo sfidante alle prossime presidenziali) Ekrem İmamoğlum che stima che a Istanbul, dove vivono 14 milioni di persone, il costo della vita è aumentato di oltre il 50% . L’ultimo a gettare la spugna di fronte alle continue invasioni di campo del presidente turco lo scorso 1°dicembre era stato il Ministro del Tesoro e delle Finanze turco, Lutfi Elvan, dimessosi (un minuto prima di essere cacciato) a causa dell'aggravarsi della crisi economica e dei disaccordi con il presidente Erdoğan sulla gestione della crisi. Sulla Gazzetta Ufficiale del giorno dopo a proposito delle dimissioni del ministro c’era scritto che le dimissioni di Elvan sono state accettate dal presidente Erdoğan e che è stato sostituito dal suo vice, Nureddin Nebati, notoriamente grande sostenitore del presidente con il quale condivide anche le invocazioni divine tanto che in un tweet si è rivolto “molto in alto”: «Mio Allah , rendilo facile, non renderlo difficile. Mio Allah, fa che il suo esito sia benefico. Dacci la verità nel nostro lavoro, rendici di successo» - ed ancora - «Dio mi conceda la capacità di svolgere il compito di Ministro del Tesoro e delle Finanze, che il nostro presidente ha ritenuto degno di me, e di essere degno della fiducia che ha riposto in noi». Una nomina quella di Nureddin Nebati, uomo molto vicino all'ex Ministro delle Finanze (e genero di Erdoğan) Berat Albayrak che aveva dovuto dimettersi dall'incarico nel novembre 2020, è a dir poco azzardata visto che si tratta di un uomo d'affari (da poco in politica) che non ha nessuna competenza in materia di economia e finanze a fronte di una laurea magistrale nel campo delle relazioni internazionali presso l'Istituto di scienze sociali e un dottorato in Scienze politiche e amministrazione pubblica.
Intanto le agenzie di rating iniziano a essere sempre più scettiche sulle manovre economiche ordinate da Erdoğan ad esempio Fitch Ratings ha declassato l’outlook sul Paese facendolo passare da “stabile a negativo” mentre anche il giudizio di Standard & Poor’s sul rating del debito sovrano turco è molto negativo: «L’outlook negativo riflette quelli che consideriamo essere un aumento dei rischi per l’economia con leva esterna della Turchia nei prossimi 12 mesi, dall’estrema volatilità della valuta e dall’aumento dell’inflazione, tra segnali politici contrastanti».
Nel quotidiano si cominciano a vedere le file per comprare il pane e le proteste di piazza, mentre molti progetti si fermano perché iniziano a venire meno anche gli investimenti stranieri nell’economia turca eccezion fatta per gli emiri del Qatar che da anni sostengono la Fratellanza musulmana e quindi il presidente Erdoğan. A tal proposito Mohammed bin Abdurrahman Al-Thani, Vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri del Qatar, ha affermato: «Contiamo su un'economia turca diversificata, che poggia su solide basi. Ciò consente all'economia del Paese di superare la situazione attuale. Il Qatar ha grandi investimenti in Turchia e questi investimenti sono fruttuosi». Mentre Erdoğan che è al potere da 18 anni si intesta la spericolata battaglia sull’economia turca in vista delle elezioni presidenziali del 2023, nel Paese cresce specie tra i giovani la rabbia verso di lui e la sua famiglia che vivono nel lusso sfrenato e in ville sfarzose, mentre sul suo partito AKP, dove regna il nepotismo e la corruzione, i freddi numeri dicono che la Turchia ha contratto debiti con l’estero pari a 446 miliardi di dollari dei quali 13 sono da onorare entro il 31.12.2021 mentre altri 25 miliardi scadranno nei primi sei mesi del 2022. E le riserve valutarie nette? Sono negative per 37,5 miliardi.
Come finirà? La parola qui passa agli economisti ma forse davanti a queste cifre persino gli emiri di Doha potrebbero rivalutare il loro coinvolgimento. Al resto potrebbero pensarci gli elettori nel 2023 al netto dei soliti brogli e finti colpi di Stato.