Politica
July 15 2022
Se le radici della crisi di governo italiana sono principalmente da ricondursi a ragioni di politica interna, non bisogna comunque sottovalutare il fattore internazionale (anche per quanto riguarda le ripercussioni che potrebbero emergere nel prossimo futuro). È noto che, con l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi lo scorso anno, la politica estera italiana ha presentato una svolta decisamente atlantista, abbandonando le sbandate filocinesi del governo giallorosso. Oltre a godere di legami piuttosto saldi con l’attuale amministrazione americana, Draghi ha sin da subito raffreddato i rapporti con Mosca e Pechino.
In primis, il premier dimissionario ha cercato in tutti i modi di ottenere il sostegno di Joe Biden per rilanciare l’influenza italiana sulla Libia: un Paese che risulta al momento “spartito” tra Russia e Turchia. Una strategia senza dubbio sensata, che si è tuttavia scontrata con il progressivo indebolimento dello stesso Biden a causa della crisi afghana. Un Biden che, nelle ultime settimane, ha iniziato a mostrare segnali di notevole (e preoccupante) arrendevolezza nei confronti di Ankara.
Al netto degli scogli, l’impostazione di fondo scelta da Draghi non è tuttavia sbagliata. Se l’Italia punta realmente a riguadagnare terreno nel Mediterraneo, deve infatti convincere la Casa Bianca a rafforzare il fianco meridionale della Nato e farsi conferire un ruolo di leadership in questo contesto, sottolineando a Washington la scarsa affidabilità della Francia (che ha spalleggiato in Libia il filorusso Khalifa Haftar nel recente passato) e della Turchia (che, almeno dal 2017, intrattiene rapporti piuttosto ambigui con Mosca).
L’altro aspetto riguarda Pechino. Il governo Draghi si è impegnato significativamente per cercare di arginare le infiltrazioni cinesi in Italia, soprattutto nel comparto industriale attraverso il ricorso al golden power. Strumento che, non a caso, nel solo 2021 ha registrato 496 informative: un netto incremento rispetto agli anni della premiership di Giuseppe Conte. In molti casi, a finire nel mirino sono stati tentativi di acquisizione da parte della Repubblica popolare cinese nei campi più disparati.
Non si può a tal proposito non ricordare come il Movimento 5 Stelle, che ha provocato la crisi in atto, abbia storicamente portato avanti delle posizioni piuttosto morbide nei confronti di Pechino. Non solo il governo giallorosso è stato probabilmente quello più filocinese della storia italiana, ma i grillini sono stati anche i grandi sponsor della firma del memorandum sulla Nuova via della Seta nel marzo 2019. Una firma che, va detto, non nacque dal nulla, ma che fu predisposta dai precedenti esecutivi targati Pd: era maggio 2017, quando l’allora premier Paolo Gentiloni si recò a Pechino per partecipare al Forum One Belt one Road. “L’Italia può essere protagonista in questa grande operazione a cui la Cina tiene molto: per noi è una grande occasione e la mia presenza qui significa quanto la riteniamo importante”, disse nell’occasione.
Al momento, non sappiamo ovviamente come la crisi in corso si dipanerà: se Draghi resterà premier, se si insedierà un governo di garanzia o se si andrà ad elezioni anticipate. Va tuttavia ben tenuto a mente che le infiltrazioni cinesi in Italia costituiscono un pericolo reale: si tratta infatti di elementi che consentono a Pechino di acquisire influenza economica e conseguentemente politica sul nostro Paese. La Repubblica popolare, c’è da giurarci, sta monitorando con estrema attenzione lo svolgersi della crisi di governo italiana. È bene che ne tenga conto non solo il Quirinale ma, in caso di elezioni anticipate, anche la coalizione di centrodestra: le sbandate filocinesi dei giallorossi devono essere assolutamente scongiurate.