Food
October 30 2023
Virgilio Martínez è molto più dello chef numero 1 al mondo, riconoscimento conquistato con il suo celeberrimo Central, di Lima. Virgilio Martinz Infatti è un vero e proprio attivista, oltre che un contadino. Parla di multiculturalità, ha fatto riavviare attività agricole, presenta il cibo come portatore di valori da trasmettere e preferisce definire la sua brigata una comunità, senza confini. Ha la curiosità negli occhi che ne fa forse il più grande creativo dei giorni nostri.
A Torino ha firmato una cena speciale che lo ha visto protagonista dell’edizione 2023 di Buonissima, la cinque giorni internazionale dedicata a cibo, arte e bellezza, nata da un’idea di Matteo Baronetto, Stefano Cavallito e Luca Iaccarino che ne firmano la direzione gastronomica.
Parla spesso di comunità ma la vita nelle cucine dei grandi ristoranti è tutt’altro che comunitaria.
Oggi il mondo è cambiato, e di conseguenza anche l'alta cucina, che è sempre uno spaccato di ciò che succede nel mondo. L'alta cucina deve avere una funzione comunitaria, unire non allontanare. Non dobbiamo concentrarci sull'estetica del piatto, altrimenti perdiamo il contatto con la gente, produciamo qualcosa di astratto, fine a sé stesso. Questo per me è un concetto fondamentale che ha a che fare con una dimensione trascendentale. La società ha necessità di fare cose coerenti pensando al benessere dell'umanità. L'alta cucina deve essere in questo più maestra che mai, deve pensare al contatto con il contadino, con il produttore, con le origini, con la tradizione. Deve valorizzare il passato, la storia e il presente, non può astrarsi dal suo tempo e dal suo luogo. Deve essere specchio delle condizioni in cui vive. Vista da questa prospettiva, l'alta cucina ha un valore filosofico straordinario.
Cosa è per lei la creatività?
Un processo di connessione con la tua parte artistica e artigiana. Ti porta a ragionare sulla diversità, a creare qualcosa di speciale che traccerà una strada che gli altri ancora non vedono. Può presentarsi ovunque, avere vari livelli di intensità, ed è il motore che anima la ricerca. In una scala, la creatività sta alla base, poi c’è la ricerca, e infine l’innovazione. Essere creativo è un modo di vivere, è il mio caffè la mattina, è come l'allegria, sono valori che fanno parte del mio quotidiano. Vuol dire vivere costantemente con una scintilla.
Ha lanciato Mater Initiative, un progetto di ricerca che la vede al fianco di un gruppo di ricercatori, documentare centinaia di ingredienti diversi, condividendo informazioni sul loro uso, la loro storia e il loro significato culturale.
Il nostro è un ristorante di alta cucina che ha un impatto forte in tutta l’America Latina. È un modello di lavoro fortemente identitario, riconoscibile. Abbiamo un centro di ricerca che non riguarda solo la cucina ma anche l'antropologia, la sociologia, le arti plastiche. Questo è Mater oggi. Ci sono 55 persone con cui studiamo il territorio, cataloghiamo nuove specie, preserviamo la biodiversità, ricerchiamo costantemente la verità; l'obiettivo è promuovere la nostra cultura, la gastronomia e trasmettere quello che siamo. Mi chiedo spesso se noi in Perù, in quanto portatori di una delle più complesse biodiversità del pianeta, saremo in grado di dare risposta alla crescente domanda di cibo. Parlando di obiettivi importanti, uno di questi è certamente la sovranità alimentare.
Anni di ricerca sugli ingredienti autoctoni del Perù, a che risultato è giunto?
Si tratta di ridefinire il rapporto tra l'essere umano e la terra. È questo che definisce, in sintesi, come cuciniamo oggi. Per questo motivo la ricerca in campo scientifico, agricolo, antropologico, culturale deve dare come risultato una cucina che sia lo specchio di noi stessi e del nostro ambiente.
I cambiamenti climatici in che modo influiscono il suo approccio alla cucina?
Propongo una cucina che si rapporta con le varie altitudini di cui si caratterizza il Perù, per farlo percorriamo tutto il territorio, tocchiamo con mano i cambiamenti climatici, vediamo come la popolazione si muove. Non lavoro con fornitori ben definiti, ma con le comunità. E loro si muovono da un posto all'altro alla ricerca delle condizioni migliori per vivere e lavorare.
Quando parliamo di contaminazione in cucina di cosa stiamo parlando?
In Italia si parla molto di contaminazione, non capisco mai se ha un'accezione positiva o negativa. Stiamo parlando di cucina, di mangiare, e associare il cibo a qualcosa di contaminato è quantomeno spiacevole. A me piace parlare dell'alta cucina togliendo la parte superficiale. La contaminazione che porta benefici è un concetto ben radicato nella culturale peruviana, e si chiama mestizaje (incrocio di culture e di razze). La nostra cultura si è fusa con quella inca, spagnola, italiana, cinese, giapponese, araba. E il risultato sono persone come me, che hanno tanti tipi di sangue, e che provano a prendere tutte le culture di cui sono composti e metterle insieme in armonia. Credo nella co-creazione, non nel genio del singolo.
Sta facendo crescere il suo Paese, attraverso la sua cucina. Immaginava un giorno di riuscire in una simile mission?
Il nostro è un paese vario, coesistono 55 etnie diverse, siamo il quarto paese per biodiversità al mondo, viviamo sul mare, nelle foreste amazzoniche o a 4000 metri di altitudine. Il grande cambiamento ci sarà quando l’alta cucina non litigherà più con l'industria, con il capitalismo e non quando non si addentrerà in questioni ideologiche.
Un giorno la chiama Netflix e le comunica che sarà tra i protagonisti della terza stagione della popolare serie Chef's Table. Come si sceglie cosa mettere dentro? E cosa lasciar fuori?
Ho voluto che vivessero con me il viaggio in Perù, non la mia famiglia o il mio passato. Ho detto loro di dimenticare il copione, di prendere un volo per Cuzco, di visitare l'Amazzonia, le comunità locali, di sporcarsi le mani e le scarpe di terra. Solo così avrebbero capito davvero chi sono e cosa faccio. Solo così il viaggio sarà servito a qualcosa e servirà a qualcuno.
Due ristoranti in Perù e a Tokyo. Come si costruisce un’esperienza gastronomica coerente con le attese, in capitali così distanti tra loro?
Attraverso Mater abbiamo trovato il senso di fare le cose. Arrivare a Tokyo era importante per la connessione che da sempre esiste tra il Perù e il Giappone. Il nostro modo di lavorare è molto simile in quanto a biodiversità, ci sono molti punti di contatto. L'idea dei menu per altitudini che abbiamo in Perù, è stata sviluppata anche a Tokyo, abbiamo lavorato con le comunità contadine giapponesi e abbiamo scoperto di avere molto in comune.
Dicono che il suo sia il miglior ristorante del pianeta. Come si arriva sul tetto del mondo?
Il nostro ristorante ha un suo stile, rappresenta un modello da copiare e reinterpretare, il che mi inorgoglisce molto. Ci sono tante persone che guardano al nostro operato, il che ci carica di responsabilità. Abbiamo generato un movimento in Sud America che chiede a tutti di elevarsi in termini fisici (parlando dell’altitudine dei menu), ma allo stesso richiede filosoficamente all’alta gastronomia di scendere dal piedistallo, di tornare alla terra, di fare un salto verso il basso. Vengono da tutto il mondo per vedere cosa stiamo facendo, e le aspettative sono altissime. Questa è la nostra grande sfida quotidiana.
Per la prima volta un ristorante sudamericano al numero 1: una rivincita o una riflessione da affrontare?
I tempi cambiano e l'attenzione del mondo si sposta di conseguenza, seguendo un flusso geopolitico. Potremmo parlare di gastro-geopolitica. A un certo punto tutti hanno iniziato a guadare l’America Latina ed hanno capito che il nostro gruppo di lavoro, che si compone di 300 persone, stava facendo cose importanti che guardavano oltre il nostro paese. I clienti sentivano l'esperienza, la stessa lasciava un segno profondo. E forse sì, offriamo davvero un’emozione unica al mondo.
Certamente avere un ristorante sudamericano in cima al mondo è una rivincita per tutto l'emisfero sud, non solo per l’America Latina, che ha sempre sofferto del pregiudizio nei confronti dell’emisfero nord. Da piccoli ci insegnano che quella è la parte giusta del mondo, e cresci con questa convinzione senza che nessuno abbia mai usato delle parole precise, ma senti che è così. Ecco perché è importante essere al numero uno.
È così giovane. Non ha paura di perdere l’equilibrio necessario a ricoprire un ruolo come il suo? Non è solo un cuoco, lo sa?
Ho grande consapevolezza del fatto di non essere più solo un cuoco. Per questo alleno la mente, il corpo e lo spirito. Devo essere sempre all'altezza delle aspettative. Ogni giorno è una sfida con il me di ieri. Non mi paragono ad altri chef perché è un processo che genera dubbi, che dà negatività. Non guardo a ciò che ho accanto, ma guardo davanti e dietro per vedere il Virgilio di ieri a che punto era, e quello di domani dove sarà. Questo mi dà equilibrio.
Poi arriva in Italia. Cosa pensa di questo pezzo di mondo?
La prima volta che sono venuto in Italia ho sentito tanta negatività. Lamentavano una mancanza di avanguardia gastronomica. C'era bassa autostima da questo punto di vista. Negli ultimi anni invece ho visto una forza enorme e dirompente da parte dei giovani che escono dalle cucine dei grandi cuochi, come Bottura, Niederkofler. Sento molto ottimismo e penso che a breve termine ci sarà molta Italia nel mondo. Se prima vedevo un "vecchio" stanco e stantio, oggi vedo un "giovane" che rispetta il vecchio e lo vuole raccontare alla sua maniera.
Quali consigli darebbe ai giovani cuochi?
Due consigli su tutti: non bisogna mai dimenticare che il nostro mestiere non si esaurisce nell’accontentare i clienti, ma bisogna soddisfare anche il gruppo di lavoro; e poi, che è proibito lamentarsi, perché questo porta a scenari senza positività.
In Italia c’è tanto Perù, tanti cuochi diffondono il verbo. Crede sia la moda del momento?
Ho lavorato con tanti ragazzi che sono venuti in Perù per ispirarsi, per poi riprodurre la propria visione della nostra cultura nel mondo. Tra gli obiettivi c’è anche quello di evitare che i nostri prodotti identitari nazionali e le nostre ricette si prostituiscano, si prestino alle logiche del mercato perdendo la propria identità. I cuochi senza un progetto li riconosci immediatamente, non guardano al domani, ma a destra e sinistra, per vedere gli altri cosa fanno.
Come si studia un menu da servire dall’altra parte del mondo? A Torino per la precisione.
Quello che abbiamo proposto a Torino è il menu Altitudini del Central di Lima e va dal mare al deserto, dalla costa alla montagna, dalle valli all'Amazzonia. È un viaggio per tutto il Perù, attraverso la sua cultura, l'arte e l'artigianato. Questi piatti descrivono un ecosistema specifico, è stata una bella sfida, perché non lo avevamo mai proposto per 120 persone.
UN LIBRO E UN PREMIO BOB NOTO. SE LO AGGIUDICA LO CHEF DEL NOMA DI COPENHAGEN, RENÈ REDZEPI
La rassegna gastronomica Buonissima si è aperta con il premio Bob Noto, in onore del fotografo, grafico, designer e uno dei più grandi gourmet del mondo. Quest'anno era dedicato al tema della creatività e ad aggiudicarselo lo chef del Noma di Copenhagen, Renè Redzepi, 3 stelle Michelin. Nel ricevere il riconoscimento, Redzepi ha dichiarato: "La creatività vuol dire sentirsi vivi. Bisogna educare noi stessi a vedere le opportunità intorno a noi per essere creativi. Ognuno di noi ha un pozzo in sé, e a volte questo pozzo si secca, a volte ho avuto anche io questo svuotamento. Questa è la parte più difficile dell'essere creativo. Fare lunghe pause è necessario per ritrovare le energie".
È stato poi presentato il libro Bob Noto, supervisionato da Antonella Fassio e pubblicato da Maretti Editore. Non un libro di cucina, ma il racconto che svela la figura di Bob Noto e di come sia diventato il perno su cui si è mosso il mondo dell'alta gastronomia italiana ed europea dall'ultimo decennio del Novecento sino alla prematura scomparsa nel 2017.