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February 19 2013
David Bowie un edonista? No, edonista è l’uomo che vive l’estetica come vanità narcisistica. Quella del Duca Bianco è invece un’estetica gentile, ricca di contenuti, un’estetica piena di grazia, fine, quasi femminile.
Penso all’era berlinese, quella di Heroes, e rivedo la dolcezza della sua impostazione fisica e corporea, i gilet, la camicia bianca, la brillantina e quella inconfondibile silhouette delicatissima. Nessuno, nella storia del pop, ha avuto un’uguale capacità di giocare con il travestimento e la sartoria. David Bowie è il monaco che si fa l’abito, David Bowie è la moda. Glielo ha riconosciuto in mondovisione Jean Paul Gaultier, introducendolo agli Mtv Award del 1995: «Questo artista è una perenne fonte di ispirazione, un punto di riferimento per tutti gli stilisti del mondo».
David Robert Jones, questo il suo vero nome, ha dato al rock’n’roll quello che il rock’n’roll non aveva mai posseduto: la testa. Bowie ha dissolto per sempre il confine tra l’arte popolare e quella intellettuale. La sua incursione nella musica è dirompente: per la prima volta, un giovane colto e raffinato, che si nutre di letteratura e arte, importa la cultura nel format della canzone pop, ricomponendo così la frattura tra alto e basso.
Attraverso le composizioni di Bowie, gli studiosi della musica e gli amanti dei suoni elitari trovano una porta d’accesso al rock. E, viceversa, i rocker entrano in possesso della chiave per esplorare un livello musicale superiore. Da ricercatore puro e sperimentatore seriale, Bowie non è mai mosso dal mercato, non progetta suoni usa e getta. Tutta la sua opera è legata da un sottile filo che ne unisce gli estremi: i dischi e le canzoni della sua vita si parlano, escono da se stessi, come parole che si staccano dalle pagine di un libro. Il senso della sua arte è annientare la classicità della forma canzone, essere e diventare il Picasso della musica. L’immagine simbolo è quella di lui, Brian Eno e Robert Fripp, intenti a scrivere accordi di brani su una lavagna negli Hansa Studios di Berlino, per poi suonarli al contrario. Una modalità che in pittura è tipica dell’espressionismo, dove i corpi umani vengono decostruiti fino diventare mostruosi. Il Bowie di oggi, come lo percepisco io, è più pittore che musicista.
Davanti allo specchio c’è un uomo fatto di un’umanità che è profondamente in antitesi con i personaggi che popolano i suoi brani: alieni, marziani, uomini che vanno nello spazio e si perdono. Il Bowie dell’ultimo inedito, Where Are We Now?, è un uomo che si chiede dove siamo e chi siamo. Domande non retoriche e fini a se stesse in un’era in cui si accorciano pericolosamente le distanze tra essere umano e macchina.
In questa vita, Mr David Robert Jones non ha coltivato l’illusione dell’immortalità. Per questo, oggi, è un uomo realizzato nel suo essere vecchio. Vecchio sì, ma bello come un palazzo antico, solido, storico, con i segni del tempo pronunciati e ben in vista. Perché il vecchio è l’unico che può permettersi il lusso di avere un’età.