I dazi della Ue sulle auto elettriche della Cina ci creeranno dei problemi

Un “muretto” alla Cina. L’Europa ha deciso di fermare la concorrenza di Pechino sulle auto elettriche imponendo una serie di dazi aggiuntivi ai veicoli importati nel Vecchio Continente. Aldilà delle ritorsioni minacciate subito dalla Cina cosa succederà al settore produttivo europeo? “Le imprese ne beneficeranno nel breve e produrranno di più, ma nel lungo periodo i settori industriali che vengono protetti dalla concorrenza del mercato internazionale diventano più deboli e, la storia dimostra, vengono spazzati via quando la protezione finisce”, spiega Paolo Manasse, professore Macroeconomia Università di Bologna.

L’Europa ha stabilito (salvo nuovi accordi con Pechino) un aumento dei dazi sulle importazioni di auto elettriche dalla Cina del 17,4% per la società BYD, del 20% per la società Geely e del 38,1% per la società SAIC. Per gli altri produttori, che hanno collaborato all’indagine durata mesi, il dazio sarà del 21%, mentre per quelli che non hanno collaborato tasso massimo del 38,1%. A questo si aggiunge il 10% già esistente per tutte le auto elettriche importate (contro il 15% applicato dalla Cina alle auto che sbarcano nel Paese). Il motivo? I produttori cinesi, grazie ai sussidi pubblici, possono vendere in Europa anche al di sotto del prezzo di produzione. Tradotto: concorrenza falsata. Pechino è attualmente il più grande esportatore di automobili elettriche al mondo. In Europa in particolare si è passati da 57mila del 2020 a circa 437mila nel 2023. Ed è vicino il 2035, quando per la transizione verde europea le auto a diesel e benzina dovranno essere un ricordo.

La risposta è imporre dazi? I dazi sono fondamentalmente un’imposta sulle importazioni. “Creano un divario tra il prezzo pagato dai consumatori, che aumenta e il prezzo percepito dai fornitori cinesi, che si riduce. I beni importati calano e i danneggiati sono i consumatori europei e i produttori cinesi. Siccome le imprese europee non sono soggette al dazio sono invece i beneficiari. Il dazio è una sorta di trasferimento di reddito dalle imprese cinesi e dai consumatori europei alle imprese europee. Ma se guardiamo alla storia il porre al riparo dalla concorrenza non è mai servito a sviluppare un’industria nazionale solida. Basta pensare alla Fiat. Nel breve periodo è vero che serve alla produzione nazionale che aumenta, ma nel lungo periodo no. L’industria nazionale protetta affievolisce gli investimenti per competere e non riesce poi a stare poi in piedi da sola.” continua Manasse.

E l’Italia? “Siamo in una morsa. Da un lato abbiamo un potenziale di domanda molto elevato, avendo un parco automobilistico molto vecchio, ma abbiamo anche un reddito pro-capite che sta diminuendo e quindi trovarsi davanti a prezzi di auto elettriche aumentati (come effetto dei dazi) scoraggia le vendite. Dall’altro canto abbiamo un settore auto indebolito (pensiamo alla rilevanza che aveva 40 anni fa rispetto ad ora) e in declino e se non agevoliamo quindi la transizione irreversibile lo indeboliamo ancora di più e rischiamo il declino”, Marcello Messori, Professore di Economia europea alla Luiss.

Pechino sta facendo le valigie per rispondere ai dazi. Localizzarsi sul Vecchio Continente, anche per la produzione, è la strategia anti-dazi messa in atto. Chery aprirà una fabbrica in Spagna, come BYD fa in Ungheria. Questo localizzare la produzione nel continente europeo vuol dire occupazione per l’Europa. “Qualunque investimento estero in Europa e in particolare per l’Italia che ne è più carente è positivo. Non credo servano atteggiamenti protezionistici, bisogna cautelarsi per le questioni di sicurezza strategica, ma l’auto non pone questi problemi. Investimenti esteri vogliono dire occupazione e una rivitalizzazione di un settore in declino nel nostro Paese. E significa anche testare una tecnologia che, ci piaccia o no, è quella scelta dall’Unione Europea per il futuro”, continua Messori.

La forchetta di dazi è un compromesso, dopo mesi di discussioni e indagini. “Nel caso delle auto è evidente che non ci sono interessi convergenti nell’Unione Europea. La Germania ha forti legami con la Cina (le sue case automobilistiche principali hanno progetti con Pechino) e altri Paesi, come l’Italia, che viceversa miravano a barriere più alte. Il compromesso è stato favorevole alla Germania” spiega Marcello Messori

I dazi europei sono lontani da quel 100% imposto dagli Stati Uniti. Ma l’Europa rischia molto di più. Per esempio, la maggior parte dei minerali necessari per il “green deal” arrivano dalla Cina e tra le ritorsioni di Pechino ci può essere la diminuzione delle esportazioni anche di tutte le componenti, come le batterie, necessarie in Europa all’industria automobilistica e non solo. “Penso che misure più severe, in linea con quelle statunitensi, sarebbero molto pericolose per i Paesi dell’Unione. Non possiamo fare “una separazione netta” con la Cina, noi dobbiamo ridurre i nostri rischi e prendere iniziative perché la Cina dà sovvenzioni inaccettabili al suo settore produttivo. Ma accodarci agli Stati Uniti con chiusure che potrebbero portare a guerre commerciali non è nell’interesse dell’Europa”, conclude Messori. E così si è arrivati al “muretto” europeo contro Pechino.

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