Decreto dignità, imprenditori all'attacco

Sgombriamo subito questa scrivania confindustriale dalle sfumature: qual è la politica economica del governo? «Non lo capisco». Dirigista? «No». Statalista? «Nemmeno». Veterocomunista? «Neanche». Allora? «Non vedo proprio il fine...» concede Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, dietro al tavolo zeppo di carte impilate. «È una politica economica da ansia da prestazione: non rientra nelle categorie economiche, ma elettorali». 

Ossia: marcare il territorio per recuperare visibilità, dopo che Luigi Di Maio è stato offuscato da Matteo Salvini nella lotta all’immigrazione. Ministro del Lavoro alla rincorsa del titolare degli Interni, dunque. Il Decreto dignità doveva rubare consensi al leader leghista. Ma la prima iniziativa economica dei gialloverdi s’è trasformata in un harakiri. «Nemmeno una parola su investimenti e industria: zero» sintetizza Bonomi.

Il provvedimento però, promette Di Maio, «darà un colpo mortale al precariato». Stretta sui contratti a termine, quindi: limite calato a due anni, quattro proroghe al massimo, più oneri per le aziende e obbligo di causale al rinnovo. Poi: indennità che salgono a 36 mesi per i licenziamenti ingiustificati. E salatissime multe a chi delocalizza prima di cinque anni, dopo aver ricevuto aiuti statali: fino a quattro volte il beneficio ricevuto. 

Gli imprenditori sono in allarme: il Decreto dignità porterà disoccupazione e ingesserà il mercato del lavoro. Ma la frattura c’è anche nel governo. Due basi elettorali da accontentare. Precari e disoccupati: humus dei Cinque stelle. Imprenditori e commercianti: forza motrice della Lega. Quelli che sperano nel reddito di cittadinanza. E quelli che chiedono meno tasse. Visioni inconciliabili, destinate allo scontro.   

Il palazzo di Assolombarda è un rettangolo di vetro e acciaio al centro di Milano, disegnato da Gio Ponti. Nella sua stanza al quinto piano, Bonomi spulcia documenti, tabelle e corrispondenza. «Non ci piace soprattutto il messaggio insito: le aziende sono cattive. Cosa vuol dire Decreto dignità? Che non abbiamo a cuore i lavoratori?». Il presidente di Assolombarda pesca fogli dalla pila di carte. Tira su con l’indice il nasello degli occhiali. «Negli ultimi giorni sono arrivati un centinaio di messaggi ed email» rivela. «Tutti attaccano la cultura anti imprese del provvedimento e ci chiedono di intervenire». 

Comincia a leggere. «Questa email arriva da una pmi del milanese, settore gas: “Conosco bene il significato delle parole. Considero il Decreto dignità uno scempio all’intelligenza e al buon senso. Si torna de facto, nel campo dei risarcimenti, a 52 anni fa”. E continua: “Siamo nel 2018: il mondo corre come un Frecciarossa e noi ci accalchiamo in terza classe sull’accelerato per la Bassa Padana!”».  

Bonomi afferra un altro foglio: «Azienda brianzola che fa plastica. Scrive: “È inaccettabile, in periodi in cui si sta lentamente rilanciando l’economia, tornare indietro di 40 anni”. Ancora, dall’hinterland meneghino: “Questo decreto, definito dignità, è un pugno in faccia alle nostre aziende. Come se fino a oggi avessimo trattato i nostri collaboratori da schiavi!”». Scuote la testa, Bonomi. «Vado avanti? Arrivato stamattina: sms di multinazionale con 6 mila addetti in Italia: “Smetteremo di investire in Italia”». 

L’antifona è chiara: il provvedimento non aggrada per nulla. Ad agosto scadono 892 mila contratti a termine. Cosa succederà? «Molti non verranno rinnovati. Si cercheranno altre modalità. Ci sarà maggiore rotazione: meno contratti e più disoccupazione». Nessun «colpo mortale», quindi. Mastica amaro, il presidente di Assolombarda: «Di Maio ha parlato anche di guerra: parole che stonano. Nel mentre, al suo fianco, il premier Giuseppe Conte ammoniva: “Non siamo contro le imprese”. È vero: sono contro i lavoratori». 

Il problema del precariato però esiste: innegabilmente. «Sì, ma non si risolve così. Il governo sembra non conoscere le aziende e la moderna economia. Qui si continua a pensare al mondo produttivo come alla fabbrica del Novecento. Invece bisogna avere il coraggio di guardare avanti. Il tema dei contratti nel 2030 sarà residuale. Non conteranno più le tipologie, ma le competenze delle persone». Non sembra rassicurante. «I lavoratori cambieranno mansioni, avranno più impieghi e dovranno riqualificarsi. Sarà questo il futuro. Le carriere saranno discontinue e servirà un reddito di sostegno nei momenti di formazione». 

Insomma: bocciatura senza appello. «Mi sarebbe piaciuto vedere i numeri che giustificano un decreto d’urgenza. In Italia sono a termine il 16 per cento dei contratti: siamo nella media europea». Cosa accadrà in concreto? «Ci sarà un enorme irrigidimento: e, dove c’è rigidità, il mercato si blocca. Intanto, grazie all’introduzione delle causali, i contenziosi cresceranno a dismisura. E impatteranno di più sulle piccole aziende, che fanno maggiore uso di contratti a tempo. Così come il nuovo limite alla durata. E poi: perché queste regole non valgono per tutti? Tu, Stato, dici che bisogna dare dignità al lavoro. Dai per primo l’esempio, allora...».

Già, perché non riguarda i dipendenti pubblici? Bonomi sorride. Una leggera cantilena milanese enfatizza l’assioma da «Elementare, Watson»: «Per motivi di copertura di cassa. Stabilizzare i precari costa. Invece, questo decreto, è a zero risorse». Poi, l’altra stoccata: il provvedimento vieta la pubblicità del gioco d’azzardo. «E perché sono escluse le lotterie nazionali? Se è un problema sociale, lo è per tutti i vizi: privati e pubblici». 

Il resto dell’inappellabilità delle critiche è dedicato alla stretta sulla delocalizzazione. «Colpiscono in particolare le medie imprese che esportano: quelle che hanno fatto ripartire l’economia italiana e creano le filiere nei territori». Perché? «Le nostre aziende manifatturiere fanno stabilimenti in Cina, Germania o Francia non perché costa meno. Ma perché lì ci sono i mercati più ricchi».

Bonomi esemplifica: «Ottengo un contributo a fondo perduto per costruire un capannone. Dopo due anni, per esigenze produttive, apro un altro stabilimento in Francia. Qui ci sarà un contenzioso: è internazionalizzazione o delocalizzazione?». Altro esempio: «Esporto l’80 per cento negli Stati Uniti. L’Italia toglie le sanzioni alla Russia. E l’amministrazione americana mi alza barriere. Che faccio? Chiudo in Italia, restituisco l’aiuto statale moltiplicato per quattro e vado negli Stati Uniti. Grazie al governo, beffa doppia». 

Le multe, sostiene Bonomi, colpiranno anche le aziende che hanno già delocalizzato. «Il governo del cambiamento, quello che doveva instaurare un nuovo rapporto tra fisco e contribuente, fa persino una normativa con effetto retroattivo» prorompe. «Il messaggio che diamo alle multinazionali che vogliono investire è allarmante: in qualsiasi momento, le regole del gioco possono cambiare. E chi  fa impresa vuole certezza, non norme capestro». 

Con i fondi pubblici, però, in tanti c’hanno marciato. «Allora sanzioniamo i furbi, ma senza penalizzare l’intero sistema economico». Sulla scrivania di vetro fa bella mostra il contratto tra Lega e Cinque stelle, siglato da Di Maio e Salvini due mesi fa: «E qui di delocalizzazioni non si parla: neanche una riga». 

Insomma, gli imprenditori speravano nella flat tax e si trovano un mercato del lavoro ancora più rigido. Il malcontento nel Nord produttivo riprende a montare.  A fine maggio 2018, aveva convinto Salvini a spazzare via lo stallo e a fare un governo. Adesso la storia si ripete. Il Carroccio scalpita, temendo di perdere l’appoggio di aziende e imprenditori. Ma questa volta sarà difficile che i Cinque stelle cedano la sudata sovranità economica, per far cantar vittoria agli alleati. Bonomi però spera: «Già eliminare le causali e rimettere i voucher risolverebbe parte dei problemi. Turismo, agricoltura, badanti: c’è un grande mercato nero che bisogna far emergere».

Un intervento che, per primo, ha chiesto Silvio Berlusconi in una lettera al Corriere della sera: «Abbiamo proposto con un disegno di legge la reintroduzione dei voucher, che erano uno strumento fondamentale per garantire a chi svolge lavori occasionali una copertura previdenziale e assicurativa». E Di Maio, almeno su questo punto, sembra possibilista.

Bonomi fa scorrere le tende bianche del suo ufficio. Dietro le vetrate, spunta la Torre Velasca: il simbolo del miracolo economico degli anni Sessanta. «Le nostre imprese avevano appena agganciato la ripresa. Eravamo ripartiti: una macchina lanciata in autostrada. Adesso vogliono farci ingranare la retromarcia. Ma così spaccano il motore...».  

Cosa servirerebbe alle aziende? «La priorità è ridurre il cuneo fiscale. Mettiamo più soldi in tasca ai dipendenti. Dal 2008 a oggi, il sistema s’è retto sulle esportazioni. Ma i consumi sono rimasti fermi. In un momento in cui si parla di dazi e dogane, noi dobbiamo far ripartire alla svelta la domanda interna. Questo aiuterebbe le piccole e medie imprese, che hanno meno capacità di affrontare i mercati internazionali».

Il governo l’ha già annunciato il taglio al cuneo fiscale. Sarà selettivo: si partirà da made in Italy e digitale. «Quella per settori è una politica industriale da anni Ottanta. Il mondo va in un’altra direzione. Dobbiamo smetterla di leggere il futuro con le lenti del passato. La politica resta sempre indietro. Lo dimostra il dibattito sull’Europa: noi l’integrazione l’abbiamo fatta da anni».

Il governo tuona contro la Germania. «Torna comodo. Però evasione, debito e tasse iperboliche non sono colpa di Angela Merkel. Prima mettiamo le cose a posto, poi parliamo del surplus non reinvestito della Germania». Ma l’Italia, nell’eterna diatriba tra spesa pubblica e rigore, deve diventare cicala o formica? «Meglio essere una volpe».

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