Lifestyle
June 06 2023
«Perché demonizzare l’utilizzo della plastica? È solo un problema di coscienza!». Questo il punto di vista di Luca Mazza, direttore creativo dal 2016 di Slamp, azienda con sede a Pomezia che produce più che lampade, vere e proprie architetture luminose, firmate da architetti e designer di fama mondiale, a partire da Nigel Coates per proseguire con Daniel Libeskind, Doriana e Massimiliano Fuksas.
Il più classico dei classici esempi di Nemo propheta in patria. L’azienda, infatti, con 30 anni di vita è nata con un oggetto cult, il tubo, nello stesso giorno e dallo stesso art director di Swatch, Alessandro Mendini, e mentre all’estero spopola, in Italia non ha ancora raccolto il consenso che meriterebbe.
Luca Mazza dal canto suo è un giovane talento capace in pochi anni di scalare la piramide gerarchica andando a fare leva in un settore in cui l’azienda aveva ampio margine di espansione, quello della ricettività, degli spazi commerciali e del comparto business: «L’oggetto luminoso illumina e allo stesso tempo racchiude in sé qualcosa di clamorosamente importante. La scienza è andata a fondo sulle frequenze della luce, sulle temperature colore che fanno stare bene, male, che agitano, o tranquillizzano. Aspetti tecnici che si uniscono alla piacevolezza dell’oggetto e al suo carattere. Per noi le lampade devono avere un carattere forte: facciamo illuminazione decorativa di interni con degli oggetti che arredano, prima di tutto, oltre a soddisfare una funzione illuminotecnica che è parte integrante del nostro business».
Innovazione dei materiali e sostenibilità.
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. La differenza la fa la coscienza dell’utilizzo di quel materiale che sia pietra, metallo, vetro, tecnopolimero. Mi piace pensare che la plastica abbia semplicemente un diverso grado di naturalezza ma che sia comunque un elemento naturale.
Oggi si cavalcano dei trend, ci si riempie la bocca di paroloni, come ecosostenibilità, ma di fatto la sostenibilità è data dalla nostra coscienza. Tutto è sostenibile sulla Terra con il giusto equilibrio, non esiste un materiale più o meno ecologico, esiste l’utilizzo che si fa di quel materiale, ecco perché non approvo la demonizzazione della plastica. Non esiste bene o male ma adatto o non adatto. L’ecosostenibilità si dovrebbe trasformare in “ecocoscienza”.
Sartorialità, tecnologia e artigianalità, come fanno a coesistere nello stesso prodotto?
Il materiale che utilizziamo è stato brevettato nel ‘94. È lui che ci ha costretto a dare un imprinting sartoriale all’azienda. Parliamo di un foglio di tecnopolimero, plastico. Data la natura di questo materiale per applicarlo nelle tre dimensioni la tecnica da usare è quella dell’origami, che non può essere realizzata con nessuna macchina. L’unico modo per trasformare le due dimensioni in tre dimensioni prevede l’utilizzo delle mani dell’uomo, nel nostro caso parliamo di 50 sarte della luce che si occupano del montaggio, affiancate da altrettanti colleghi che seguono la parte del taglio, della trasformazione del materiale, della stampa. È la scoperta tecnologica iniziale che ci ha guidato e ci ha permesso di capire come la parte artigianale potesse unirsi ad un approccio semi industriale con delle regole, che arrivano da un’attenta osservazione del mercato giapponese.
Si vede la differenza tra un file 3D e un progettista che si sporca le mani?
La differenza si vede soprattutto nella nostra azienda dove non è possibile realizzare un 3D prima di costruire una lampada. Lavoriamo dei fogli, con diversi spessori, resistenze, densità… reagiscono in maniera non casuale ma diversa, sono legati alla forza di gravità. Ogni prodotto nasce da un prototipo, da tanto scotch, da forbici e mani che lavorano e si sporcano. Il nostro processo di lavorazione è simile a quello che si applica nella moda con il tessile. Il 3D lo facciamo a posteriori perché ce lo chiedono gli architetti.
Tra i modelli che avete lanciato ce n’è anche uno da tavolo, con batterie. Fino a 10 anni fa nessun brand che si rispetti avrebbe mai pensato di mettere in produzione quel tipo di luci, oggi tutti le hanno in catalogo.
Ci siamo abituati a muoverci, a essere nomadi, a portarci dietro la bellezza. Abbiamo capito che la lampada non sta necessariamente accanto al divano per trent’anni ma addirittura possiamo ricreare la stessa bellezza sul tavolo della terrazza.
Manca la forza lavoro un po’ in tutti i settori. Vale lo stesso anche per voi?
Le nostre sarte della luce sono alla seconda generazione. La nostra fortuna è di essere a Roma, qui non ci sono tantissime aziende di illuminazione e chi ci ha scelto ha fatto gruppo, sistema.
Sono 20 anni che lavoro in azienda, ho 38 anni, quando sono arrivato studiavo ancora, curavo il sito internet. Il fondatore Roberto Ziliani non ha mai cambiato il suo approccio, simile a quello che avrebbe un imprenditore americano, che sta lì e dà spazio e fiducia alle persone che sono al suo fianco, facendole esprimere, sbagliare e crescere. Insieme. Può sembrare solo una bella storiella romantica ma della quale sono testimone diretto.
Se parliamo di produzione in che percentuale finisce all’estero? E verso quali mercati?
La nostra produzione, 100% made in Italy, esce dallo stabilimento di Pomezia e per l’80% finisce all’estero. L’apprezzamento che abbiamo è pazzesco. Slamp ha 30 anni ed è nata con un oggetto cult, il tubo. Siamo nati con Swatch negli anni ’90, nello stesso giorno e dallo stesso art director: Alessandro Mendini. Nel ‘94 ci siamo palesati al Salone di Parigi. È lì che Mendini chiama i migliori designer a raccolta per lavorare su un prodotto, con la bandiera italiana sulla scatola e un’attenzione maniacale per il packaging. Sembrava un oggetto fashion, c’erano lanci semestrali primavera/estate, autunno/inverno. Sulla falsa riga delle logiche dell’Haute Couture, Roberto (Ziliani, ndr) ha basato la sua strategia marketing e mentre in Italia è un po’ rimasto il pregiudizio della giovane azienda partita dall’idea di un graphic designer, il Medio Oriente e il resto del mondo ha iniziato a riconoscerci come azienda di alto livello.
E la pandemia, la crisi energetica, la guerra… che tracce hanno lasciato?
Hanno ridisegnato i confini, alcune nazioni hanno perso l’80% delle vendite, e non parlo solo di Russia e Ucraina, parlo anche di Germania, Paesi Bassi, Francia. Se prima per vendere bastava prendere un treno e arrivare a Parigi, oggi devi fare sei ore di volo e arrivare a Dubai.
Gli store mono marca funzionano ancora?
Funzionano se c’è bisogno di avere un angolo di casa dove mostrare cosa siamo effettivamente. Il B2C ha senso dove ci sono delle persone che camminano, parliamo delle vie della moda, dello shopping. Abbiamo uno show-room a 100 metri da Harrods, ne stiamo aprendo uno a Parigi, uno a Miami, ma non ne apriremo a Dubai, perché lì non ci sono vie dello shopping ma architetti ed interior designer, che non frequentano i mono marca ma i retail che distribuiscono grandi marchi.
Salone del Mobile e Fuorisalone. 1200 eventi. Quanto è glamour e quanto c’è di commerciale?
Effettivamente, da diversi anni, c’è una abitudine: non fare ordini in fiera. I buyer, i retail, i negozianti si riempiono gli occhi, prendono tutte le informazioni e poi una volta tornati a casa, sbobinano foto e contatti e decidono la loro strategia. C’è più pensiero e meno istinto quando si fa un acquisto.
Il Fuorisalone nato come cassa di risonanza del Salone oggi si è fatto competitor.
Dipende dalla coscienza con cui viene affrontato il Fuori Salone. Inizia ad essere scomodo quando prendono spazio le auto produzioni e non parlo delle collezioni che troviamo nelle gallerie, da Rossana Orlandi o Nilufar, che seguono artisti e capsule con un lavoro certosino. I progetti li fanno gli architetti, sempre più persone si affidano a loro, o all’interior per innovare uno spazio, un appartamento, così facendo necessariamente serve affidarsi ad una azienda che ti dà delle sicurezze, più che all’artista che si improvvisa produttore.