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January 21 2019
Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno appena proclamato con enfasi di aver “rispettato tutte le promesse su Reddito di cittadinanza e pensioni”. In realtà dopo questi sei mesi dell’esecutivo giallo-verde, si può dire comunque che mai si era vista tanta distanza tra le proposte di un partito d’opposizione e le mosse concrete che quello stesso partito realizzava una volta al governo.
Ale giravolte c’eravamo abituati. A partire dal 2014, e fino alle elezioni del 4 marzo 2018, Salvini e i leader del Movimento 5 stelle avevano dichiarato infinite volte la loro ostilità a qualsiasi accordo: “Noi non andremo mai con Beppe Grillo o con la sinistra”, giurava Salvini, ancora nel gennaio 2018; e Di Maio continuava a recitare il mantra dell’indisponibilità del M5s a ogni alleanza.
Com’è andata a finire, lo si sa dal giugno scorso. I due alleati si sono poi contraddetti anche nell’attività di governo, a partire dalla manovra: sul rapporto tra deficit e Pil, per esempio, avevano giurato che non avrebbero mai accettato di scostarsi da quota 2,4%, e invece hanno dovuto piegarsi al 2,04% imposto dalla Commissione europea. Ma in infiniti campi sia il M5s (soprattutto) sia la Lega hanno inanellato un’imbarazzante sequenza di dietrofront.
Ecco i principali temi sui quali hanno fatto retromarcia.
L’ecologia è una della "cinque stelle" ed è stato tema propagandistico decisivo per il M5s, che dall’opposizione si presentava come la realtà “più vicina ai comitati ambientalisti”. Nelle ultime elezioni politiche e amministrative, anche grazie a battaglie demagogiche contro opere che i grillini sostenevano incarnare un osceno business “sulla pelle dei cittadini”, il M5s ha mietuto facili consensi, destinati però a essere presto delusi. Come mostrano queste tre storie esemplari.
A Melendugno, il Comune leccese dove approda il Trans Adriatic pipeline (Tap), il gasdotto che parte dall’Azerbaigian, il 4 marzo 2018 i grillini hanno preso il 67% dei voti cavalcando la protesta ambientale. Alessandro Di Battista prometteva in un comizio del 2 aprile 2017: “Quando saremo al governo, quest’opera la blocchiamo in due settimane!”. In Puglia, grazie anche al No al Tap, i grillini hanno incassato il 44%. La leccese Barbara Lezzi, oggi ministro per il Sud, in febbraio guidava la protesta: “Il gasdotto è inutile, antieconomico e frutto della speculazione, bipartisan e miliardaria, voluta da Berlusconi e dall’ex leader dei Ds, il pugliese D’Alema”.
Luigi Di Maio ha annunciato il dietrofront nell’ottobre 2018. La scusa? Le sanzioni da pagare alle aziende impegnate nel Tap (Enel, Shell, Eon, Gdf Suez e altre): “Non possiamo sborsare 20 miliardi e rinunciare al Reddito di cittadinanza, alle pensioni e a tutto quel che vogliamo fare”, s’è giustificato. Il Tap, quindi, si farà.
Il 15 febbraio 2009 Beppe Grillo suggeriva sul blog di bloccare l’alta velocità ferroviaria: “Se le ferrovie per i pendolari avessero un decimo dei finanziamenti della (inutile) Tav, milioni di italiani arriverebbero al lavoro o a scuola in orario e senza doversi poi fare la doccia”. Da allora il M5s è sempre stato contro la Tav.
Una volta arrivato al governo, ha continuato a manifestare la sua negatività, a parole, ma in realtà continua a prendere tempo: “Analizzeremo il rapporto costi-benefici prima di decidere” ha detto in giugno Danilo Toninelli, ministro delle Infrastrutture. Finora non ha deciso nulla.
Il 14 gennaio, il premier Giuseppe Conte ha dichiarato che sulla Tav “non ci sarà solo l’analisi costi-benefici, ma anche una valutazione legale, come fu fatto per il Tap”. Visto che la mancata conclusione della Tav potrebbe costare 3-4 miliardi di penali, l’epilogo potrebbe ripetersi.
Il M5s ha criticato gli ultimi governi perché, mentre la magistratura bloccava l’Ilva di Taranto per inquinamento, cercavano di tenerla in vita. I grillini proponevano una drastica alternativa: la chiusura dell’acciaieria, o la sua (impossibile) riconversione. Anche per la sua battaglia sull’Ilva, a Taranto nel 2018 il M5s ha preso il 48% dei voti. Nel contratto del governo del cambiamento si legge che l’Ilva “sarà sottoposta a una riconversione basata sulla chiusura delle fonti inquinanti, sulla bonifica e sullo sviluppo delle energie rinnovabili”.
Divenuto ministro dello Sviluppo, Di Maio ha espresso dubbi pesanti anche sulla gara con cui il suo predecessore, il pd Carlo Calenda, nel giugno 2017 aveva ceduto l’impianto ad Arcelor-Mittal. Di Maio ha ottenuto così che la scadenza per l’assegnazione definitiva dell’Ilva fosse spostata al settembre 2018, sostenendo ci fossero gli estremi per annullare la gara e rifarla da capo. Lo scorso agosto, alla luce dei pareri dell’avvocatura dello Stato, Di Maio ha annunciato al contrario che la gara “è stata il delitto perfetto”, in quanto a suo dire “la cessione è stata illegittima, ma non ci sono i presupposti per annullarla”. Quindi, anche sull’Ilva, nulla cambia.
Il M5s si è schierato tante volte contro le estrazioni e le esplorazioni petrolifere in mare, tanto da appoggiare e il cosiddetto referendum sulle trivelle dell’aprile 2016 (poi dichiarato nullo). In campagna elettorale, il M5s ha confermato la sua promessa di bloccare le nuove trivellazioni.
Poi, ai primi di gennaio, il ministero dello sviluppo economico di Di Maio ha varato alcuni decreti che autorizzavano l’esplorazione alla ricerca di idrocarburi in tre aree del Mar Ionio, oltre al permesso di “coltivare”, una nuova concessione in provincia di Ravenna e la proroga di una seconda. È scoppiata la polemica con gli ambientalisti e il presidente della Puglia, Michele Emiliano, ha annunciato che impugnerà i decreti. Il 6 gennaio, Di Maio si è così giustificato su Fb: “Un funzionario del mio ministero ha semplicemente sancito quello che aveva deciso il vecchio governo. Non poteva fare altrimenti, perché altrimenti avrebbe commesso un reato”.
Nella scorsa legislatura, il M5s ha fatto campagna contro i “salvataggi” delle banche messi in campo dai governi a guida democratica: Monte dei Paschi, Banca Etruria, Banca Marche, Popolare di Vicenza e Veneto Banca... Di fronte alla crisi sempre più grave della Cassa di risparmio di Genova, però, il 7 gennaio il premier Giuseppe Conte ha dovuto predisporre un fondo di salvataggio da 1,3 miliardi. In più, ha autorizzato l'uso di risorse pubbliche fino a 4 miliardi, da spendere tra garanzie (3 miliardi) e ricapitalizzazione (1 miliardo). I giornali hanno avuto gioco facile nel mostrare che il testo del decreto era un “copia-e-incolla” del decreto 237/2016, con cui il governo Gentiloni aveva salvato Mps e banche venete.
Incalzati dalle accuse dei democratici e dalle critiche degli elettori sui social, Di Maio ha risposto l’8 gennaio su Facebook con uno slogan di pura propaganda, “Loro salvavano le banche, noi i risparmiatori”.
In realtà, la strada seguita dal governo Conte (come quella dei governi dem) consente di salvare la Carige con denaro pubblico, e impone che quanti hanno investito in quella banca partecipino al risanamento (è il “burden sharing”, “condivisione degli oneri”). Proprio come nei salvataggi precedenti.
Negli anni trascorsi all’opposizione i grillini si erano spesso scagliati contro i governi Pd per la decisione di procedere nell’acquisto degli arei da guerra F-35, prodotti dalla Loockheed e in parte dalla italiana Leonardo. Ogni caccia costa 80-100 milioni di euro. L’8 agosto 2017 Alessandro Di Battista scriveva sul blog: “Il programma F-35 è fallimentare. Chi ci ha fatto entrare in questo programma dovrebbe essere preso a calci in culo“, e voleva “bloccare le risorse per gli F-35 e dirottarle per salvare vite in mare”. Nel 2017 i deputati grillini (tra i firmatari Angelo Tofalo, esperto M5s per sicurezza e armi) avevano inutilmente presentato questo emendamento alla Legge di bilancio: “Ai fini del contenimento della spesa pubblica, il programma F-35 è integralmente definanziato”.
Dopo un mese al governo da ministro della Difesa, la grillina Elisabetta Trenta confermava il 6 luglio al Fatto: “Non compreremo altri F35, e valuteremo se togliere i contratti in essere”.
In dicembre Tofalo, divenuto sottosegretario alla Difesa, ha rivalutato gli aerei Usa: “In Italia, in questi anni, se n’è parlato in maniera distorta. Il programma ormai è avanti e c’è da oltre 20 anni; e l’F-35, a differenza di quanto qualcuno ha detto, ha un’ottima tecnologia, forse la migliore al mondo”. Il ministro Trenta non lo ha contraddetto.
Lo scorso 27 dicembre il Corriere della Sera ha scritto che “il governo Conte nel 2019 forse acquisterà solo 6 dei 10 velivoli opzionati a suo tempo dal governo Gentiloni per il prossimo quinquennio, che andrebbero così ad aggiungersi ai 28 acquistati fin qui dall’Italia”. Da allora non se n’è più saputo nulla.
Il M5s non è mai stato né filoamericano, né favorevole all’alleanza militare atlantica. Nel 2014 Alessandro Di Battista accusava Washington “dell'indecente, barbaro, inaccettabile imperialismo nordamericano che in tutto il mondo ha portato milioni di persone a morire di fame”. Nel giugno 2016 Manlio Di Stefano, influente deputato grillino in commissione Esteri alla Camera, si diceva a favore della “ridiscussione della partecipazione italiana all'interno della Nato” ed esprimeva “una ferma condanna alla militarizzazione dell'est europeo”.
Ma nell’aprile 2018, vicino all’ingresso nel governo, Di Maio improvvisamente ha riscoperto la Nato e si è schierato con l’attacco missilistico americano in Siria, ottenendo peraltro molte critiche dalla sua base. Poi in giugno, da vicepremier, ha dichiarato: “Come abbiamo sempre detto, noi restiamo alleati degli Stati Uniti”.
Il M5s aveva anche promesso in campagna elettorale che avrebbe smantellato il Muos, il potente radar della base Nato di Niscemi, in Sicilia, che gli ambientalisti giurano emetta radiazioni pericolose, ma poi il ministro grillino della Difesa, Elisabetta Trenta, si è opposto.
L’uscita dall’euro è sempre stato uno dei cavalli di battaglia del M5s. Nel novembre 2016, Beppe Grillo era arrivato a prospettare un (impossibile) referendum abrogativo del trattato di Maastricht: “Il referendum” diceva “è uno dei punti fondamentali del nostro programma”. A metà del dicembre 2017, Di Maio su La7 dichiarava che “se si dovesse arrivare al referendum, io voterei per l'uscita”.
Poi, a partire dall’8 gennaio 2018, il leader del M5s ha contraddetto anni di propaganda: “Io non credo sia più il momento per l'Italia di uscire dall'euro”, ha dichiarato quel giorno a Porta a Porta, “e spero di non arrivare al referendum sull'euro. Per me, comunque, sarebbe solo un'extrema ratio”.
Oggi nel M5s nessuno parla più di uscire dall’euro, né di referendum.
La proposta più integralista del M5s ha subito molte metamorfosi. Lanciata nel 2014-15 da Beppe Grillo come idea rivoluzionaria, inizialmente proponeva “un reddito minimo di 780 euro mensili cui tutti hanno diritto in quanto cittadini”. Il sito LaVoce.info stimava che l’idea sarebbe costata 450 miliardi l'anno, quasi il 25% del Pil. Una proposta di legge presentata dai deputati grillini nel 2015 prevedeva già qualcosa di diverso: “Almeno 780 euro minimi mensili per tutti, anche tramite integrazione”. Quindi i 780 euro non venivano dati a tutti, ma solo a chi non guadagnava nulla, mentre chi aveva un reddito inferiore a quella cifra incassava un’integrazione che gli permetteva di raggiungerla. Nel 2018 una nuova proposta di legge grillina ha stabilito “paletti” in base al reddito familiare, al patrimonio immobiliare...
Nella versione “definitiva”, varata dal governo a metà gennaio, i limiti sono stati ancora aumentati. Si legge che il Reddito di cittadinanza di 780 euro lordi mensili verrà concesso – da aprile – soltanto a chi nel 2019 abbia un reddito Isee (Indicatore della situazione economica equivalente) sotto i 9.360 euro annui. Ma le regole di contorno sono stringenti e difficili da aggirare. Per esempio, potrà accedere al Rdc solo chi abbia regolare residenza in Italia da almeno dieci anni, e senza alcun precedente penale. La cifra sarà decurtata di 280 euro per chi è proprietario di prima casa, mentre chi ha due case (o anche una casa più un patrimonio superiore ai 30mila euro) non vi accederà. È fuori anche chi nel 2018 ha acquistato un’auto sopra i 1.600 cc. La durata del Rdc sarà di 18 mesi, rinnovabili, ma il richiedente dovrà accettare almeno una delle tre offerte di lavoro che gli verranno proposte dall’Agenzia del lavoro: la prima entro 100 chilometri dalla residenza, la seconda entro 250 chilometri, la terza ovunque. Il beneficiario senza lavoro che non controllerà almeno una volta al giorno il sito ufficiale con le offerte d’impiego perderà il Rdc.
I tecnici sono comunque molto scettici sulla possibilità che lo strumento possa davvero partire tra marzo e aprile.
Il M5s è da sempre scettico su molti principi scientifici e critico nei confronti dell’obbligo di vaccinazione (che i grillini dicono essere teleguidato dalle industrie farmaceutiche). Prima dell’estate, la senatrice Paola Taverna aveva posto un emendamento al decreto Milleproroghe per cancellare il divieto d’iscrizione in asili nido e scuole materne per i bambini non vaccinati.
Poi, dopo le polemiche scientifiche (e anche dopo una serie di bimbi non vaccinati contro il morbillo, morti tra estate e autunno) in settembre Taverna e il M5s hanno fatto dietrofront. A completare la retromarcia, tra gli strepiti degli ex sostenitori traditi, il 13 gennaio Beppe Grillo ha firmato un documento pro-vax elaborato dal professor Roberto Burioni, grande fautore delle vaccinazioni.
Il M5s non si era mai schierato nelle ultime battaglie per rendere più facile la legittima difesa. Al contrario, nel movimento sul tema ha sempre prevalso l’ala sinistra, che si diceva “contraria alla giustizia fai-da-te e al far-west”.
I grillini, invece, si sono dovuti accodare alla Lega, e lo scorso ottobre hanno votato in Senato una formulazione che accresce la presunzione d’innocenza in chi si difende a casa propria. Ora la legge è alla Camera e verrà approvata entro febbraio.
Dopo aver gridato alla necessità di bloccare subito la prescrizione dopo una sentenza di primo grado, il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede in dicembre ha accettato di rinviarla al gennaio 2020.
In ottobre il M5s aveva presentato un emendamento alla Legge di bilancio per regalare contraccettivi a tutti i giovani sotto i 26 anni e chi ha redditi sotto i 25mila euro annui (immigrati compresi), ma è stato ritirato in novembre.
Nel gennaio 2017, in un vertice sovranista a Coblenza, Matteo Salvini definiva l’euro “una scelta criminale”. Nella campagna 2018, il leader leghista aveva fatto un tour d’Italia all’insegna dello slogan “Basta euro: Salvini premier”. Nel programma (pag. 9) la Lega scriveva: “L’euro è la principale causa del nostro declino economico, è una moneta disegnata su misura per Germania e multinazionali, e contraria alla necessità dell’Italia e dell’impresa. Abbiamo sempre cercato partner in Europa per un percorso di uscita concordata, e continueremo a farlo”.
La retromarcia è cominciata in giugno, quando è stata cancellata la scritta “Basta euro” dal muro della Lega in via Bellerio, a Milano. Il 9 dicembre, Salvini è andato a Un’ora e ½ e ha dichiarato: “L’Italia non può uscire dall’Europa o dall’euro, e noi non vogliamo uscire da niente; vogliamo stare dentro e cambiare le regole dell’Ue”.
Una delle bandiere della Lega è sempre stata la riduzione della pressione fiscale. Ancora il 22 settembre 2017, giurando non si sarebbe mai alleato con i grillini, Matteo Salvini prescriveva su Fb la sua ricetta: “Pressione fiscale in Italia al 42,7%? roba da matti. Flat tax, tassa unica al 15%, pagare meno e pagare tutti”.
Con la Legge di bilancio, però, il governo giallo-verde ha scritto che quest’anno la pressione fiscale passerà dal 42 al 42,5% del Pil, con un incremento al 42,8% già previsto nel 2020. E questo solo se non partiranno le clausole di salvaguardia con l’aumento dell’Iva: in quel caso la pressione salirà di un 1,2-1,5% in più.
Il 4 novembre, in un’intervista al Giornale, il sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti ha proclamato la sconfitta: “È chiaro che l’approccio dei mercati e della Commissione sarebbe stato diverso se avessimo diminuito le tasse invece di aumentare le spese (con il Reddito di cittadinanza, ndr), ma ormai è fatta”. Giorgetti, insomma, ha ammesso il fallimento della Lega, che agli elettori prometteva il taglio delle tasse e invece ha fatto il contrario.
Nel gennaio 2018, Matteo Salvini andava in tv da Lucia Annunziata e s’impegnava alla “pace fiscale per tutte le cartelle di Equitalia sotto i 200mila euro”. Il capo della Lega spiegava che, con il Carroccio al governo, se il contribuente in lite con il fisco salderà il 10% del dovuto, fino a un massimo di 200mila euro, sanerà la posizione. Salvini aggiungeva che quella non era “una promessa, ma un impegno”.
Nella Legge di bilancio, la pace fiscale è stata drasticamente ridimensionata: si potranno sanare le pendenze fiscali versando aliquote in base al reddito Isee: si paga il 16% se il reddito è sotto 8.500 euro; il 20% per un Isee tra 8.500 e 12.500 euro; il 35% fra 12.500 e 20mila euro. Stop. Sono escluse, peraltro, tutte le società.
Dal 2015, la Lega di Matteo Salvini proponeva come suo dogma la flat tax al 15% sul reddito familiare. Nel programma 2018 (a pag. 3) era la panacea per il rilancio economico. Nella Legge di bilancio 2019 si legge che si applica ai soli redditi delle Partite Iva fino a 65mila euro di fatturato, e qui sarà al 15%, mentre salirà al 25% per quelle con redditi fino a 100mila euro. Le persone fisiche sono escluse.
La Lega, anche nell’ultima campagna elettorale, difendeva l’alta velocità in Val di Susa. Nel programma (pag. 45) si legge: “Senza un’adeguata rete di trasporto ad Alta velocità non potremmo mai vedere riconosciuto il nostro naturale ruolo di leader della logistica in Europa”. Oggi, di fronte alle impennate dei grillini che vogliono bloccare l’opera in Val di Susa, la Lega si limita alla resistenza passiva: “Sulla Tav” ha detto il 14 gennaio Salvini “i 5 stelle hanno una posizione contraria. Io dico che c'è un progetto: si può rivedere, se ci sono costi esorbitanti. L'importante è avere il tunnel. Sono convinto che troveremo l'accordo. Se così non fosse, la parola passa agli italiani”. Cioè al referendum, che ovviamente il M5s non vuole fare.
Negli ultimi due anni Matteo Salvini ha manifestato grande simpatia per Vladimir Putin ed è più volte andato a Mosca, alimentando il sospetto di finanziamenti e intese sotterranee: l’ex vicepresidente Usa Joe Biden, nel dicembre 2017, ha addirittura denunciato che “la Russia ha interferito con il referendum costituzionale italiano nel 2016, e sta aiutando Lega e M5s in vista delle prossime elezioni”.
Negli ultimi anni la Lega, con tutto il centrodestra, ha insistentemente chiesto la fine delle sanzioni contro la Russia e la ripresa di pieni rapporti commerciali con Mosca, un impegno ribadito anche nel Contratto di governo. Il 13 settembre, invece, il governo italiano si è accodato alla decisione degli altri Paesi del Consiglio d’Europa e ha votato per la conferma delle sanzioni per altri sei mesi.