Economia
April 29 2015
Le parole pronunciate oggi da Papa Francesco, che ha parlato di scandalosa “disparità di retribuzione tra uomini e donne”, rilancia il tema del cosiddetto “gender pay gap”, appunto la differenza salariale, a parità di lavoro svolto, tra uomini e donne. Un tema particolarmente sentito a livello comunitario, se è vero che dal 2011 la Commissione europea ha indetto una giornata dedicata appunto alla sensibilizzazione su questa delicata questione. Nell’ultima edizione, quella del 2014, Bruxelles ha pubblicato i dati più aggiornati sui divari retributivi che a livello comunitario rendono quanto mai evidente la discriminazione esistente tra uomini e donne.
Nell’Unione europea le donne in media guadagnano infatti circa il 16,4% in meno degli uomini, un dato comunque in calo rispetto al 17,5% del 2011. Questa forbice varia a seconda dei Paesi: è inferiore al 10% in Slovenia, Polonia, Lussemburgo, Romania e a Malta, sfora il 20% invece in Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Germania, Austria e Estonia. L’Italia rappresenta in realtà un caso molto particolare. Se si guarda infatti alle cifre nude e crude, si scopre che il nostro posizionamento è più che rispettabile: il divario retributivo di genere nel nostro Paese, riferito sempre ai dati del 2014, si fissa al 6,7%, ben al disotto dunque della media europea, e a distanze quasi siderali dalle percentuali della Germania, che fa segnare invece un preoccupante 22,4%.
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Quando però si approfondiscono meglio le questioni si scopre che tutto questo ottimismo è mal riposto. I dati europei, infatti, innanzitutto non tengono conto del basso tasso di occupazione femminile nel nostro Paese, bloccato al 46%. Inoltre, il campione delle donne lavoratrici utilizzato per le statistiche comunitarie comprende in misura relativamente maggiore donne laureate ed esclude quelle che avrebbero prospettive di remunerazione più contenute. Infine, a rendere ancora meno tranquillizzante il nostro scenario nazionale, c’è da rilevare che in Italia, accomunata in questo ad altre poche realtà come Ungheria e Portogallo, il divario anziché diminuire, come avviene a livello comunitario, cresce con il passare degli anni: era infatti al 4,9% nel 2008, è lievitato al 5,5% nel 2009, per arrivare appunto al 6,7% nel 2014.
Per quanto concerne invece le ragioni che nel tempo continuano a produrre queste significative differenze retributive tra donne e uomini, l’analisi a livello europeo ne ha fatte emergere alcune che possono essere considerate più significative. A cominciare dal fatto che donne e uomini trovano spesso lavoro in settori diversi e svolgono mansioni differenti, con la costante che i comparti a prevalenza femminile presentano in genere salari più bassi di quelli a prevalenza maschile. Nel settore sanitario, per esempio, le donne rappresentano ben l’80 % della forza lavoro e le disparità si fanno sentire in modo significativo. Ci sono poi da considerare pratiche invalse negli ambienti di lavoro, soprattutto per l’avanzamento di carriera e le opportunità di formazione, che finiscono anch’esse per incidere sulla retribuzione delle donne. Queste ultime infatti sono spesso discriminate dai sistemi di incentivazione del personale (bonus, premi di produzione o altri incentivi monetari) o dalla composizione della busta paga, discriminazioni che si verificano spesso anche come conseguenza di fattori storici e culturali.
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Questo insieme di elementi finisce per formare il cosiddetto “soffitto di cristallo” che impedisce alle donne di raggiungere le posizioni più remunerative. Le competenze e le capacità delle donne poi sono spesso sminuite, soprattutto nei settori dove sono maggiormente rappresentate. Questa svalorizzazione incide negativamente sulla busta paga. Molto spesso infatti i lavori fisici svolti tradizionalmente dagli uomini sono ritenuti superiori a quelli esercitati dalle donne: un magazziniere guadagnerà per esempio di più di una cassiera di supermercato.
C’è da considerare inoltre che in politica e nell’economia le donne sono scarsamente rappresentate a livello di posizioni di comando. Nel 2013 nei consigli di amministrazione delle principali società quotate in borsa dell’Unione europea le donne erano rappresentate solo per il 17,8 %, mentre le amministratrici delegate non hanno superato il 4,8 %. Infine, e non certo da ultimo, le donne scelgono di solito formule di lavoro part-time per poter conciliare famiglia e vita lavorativa. Gli obblighi familiari riducono infatti in genere le possibilità di una donna di fare carriera e guadagnare di più. Il divario salariale risulta non a caso maggiore per le donne con figli o che lavorano part-time.