November 24 2015
"Dio esiste e vive a Bruxelles" al cinema: la recensione
Claudio Trionfera
Quale Dio è mai questo che vive a Bruxelles? Più che vivere, cova. Odio. È iracondo, malvagio, sadico. Tanto perfido quanto vile. Sembra un demonio. Del quale, però, non ha la seduttività.
Gode solo quando fa del male. Ferocemente dispettoso, chiuso nel suo studio claustrofobico, archivio sterminato con schede di umani da colpire e far soffrire; un computer dove compila, giorno dopo giorno, l’Enciclopedia del Male, il Vocabolario della Tribolazione e della Sfiga. Con principi da applicare inesorabilmente ai destini della gente.
Bruxelles è grigia. Emblema di quel plat pays cantato da Jacques Brel. E il grigiore pare portarsi dietro le brume rotolanti dell’opacità più malefica, della caligine più maligna e patibolare.
Ci sarà scampo per l’umanità? La speranza non è più nel Figlio, scappato da tempo con la sua croce. Neppure nella moglie, silenziosa, passiva, inebetita. Piuttosto nella figlia. Ribelle. Che decide di andare alla ricerca dei “suoi” apostoli pescati nel mondo dei reietti e dei disperati e di restituire agli uomini la felicità perduta scrivendo un Nuovissimo Testamento dopo aver violato il computer paterno (strumento principe delle malefatte) ed averlo sabotato.
Non prima di averne estratto i dati sensibili ed aver spedito a ciascun essere umano, via SMS, la propria data di morte in forma di vero e proprio countdown. Scatenando una rivoluzione planetaria ma cambiando, naturalmente in meglio, la qualità della vita di tutti.
Jaco Van Dormael, autore belga di immensa creatività in vari campi dell’arte che raramente si affaccia al cinema (lo ha fatto solo quattro volte, compresa questa, negli ultimi venticinque anni, sempre con risultati incisivi: Toto le héros - Un eroe di fine millennio, 1991; L'ottavo giorno (Le Huitième jour), 1996; Mr. Nobody, 2009), elabora da sempre temi legati al concetto, alla percezione e alla consapevolezza dell’esistenza. Con uno stile che lo conduce lontano dalla realtà pure restandone saldamente ancorato attraverso un linguaggio che privilegia il simbolo, il paradosso, la visione quasi onirica.
Tutti elementi che ritroviamo in questo film baluginante ed elettrico, capace di mescolare follemente sacro e profano, di rileggere i passi del percorso biblico dalla genesi all’esodo elaborando una sorta di immaginario espanso in un viaggio che qualche volta rasenta il delirio. Senza che, però, i personaggi così nitidi e incisi nei caratteri vengano persi di vista, o, peggio, sopraffatti dall’impeto della composizione visiva.
“Dio” è l’attore Benoît Poelvoorde, segaligno, schiumoso e perverso in una recitazione magnificamente isterica; sua figlia Éa è la giovanissima Pili Groyne, vitale ed espressiva abbastanza da lasciare una traccia benefica sull’orizzonte horror disegnato dal padre e sostituirsi al “fratello” fuggiasco arrivando addirittura a camminare sull’acqua.
Luminosa anche la figura di quella moglie attonita, muta, istupidita e pietrificata ma anche lei destinata al riscatto, interpretata da Yolande Moreau. E sono molti i personaggi, per lo più bizzarri, che ruotano attorno al nucleo centrale della disputa divina: tra gli altri Catherine Deneuve in una scena con un gorilla che sembra riecheggiare l’icona del Ciao, maschio di Ferreri, François Damiens, Laura Verlinden, Serge Larivière.
Già, Ferreri. Sono citabili, per affinità, anche Fellini, Tarkovskij, il surrealismo e ogni possibile orizzonte visionario. In un racconto che a tratti sembrerebbe andare un po’ a ruota libera ma che in realtà si allinea su un progetto ben determinato e sviluppato, con gli esiti di una fruizione molto piacevole. Fino alla conclusione “psichedelica” che chiama a raccolta perfino il Cantico dei cantici. Il funerale è lontano. Si vede la luce. È l’apoteosi.
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