Dal Mondo
April 29 2021
Joe Biden ha tenuto ieri sera il suo primo intervento a camere riunite. Non si è trattato tecnicamente di un discorso sullo stato dell'Unione: a partire dal 1977, i nuovi presidenti in carica hanno infatti definito il loro primo discorso in sessione congiunta del Congresso come "messaggio annuale". Tralasciando comunque questa sottigliezza tecnica, è bene concentrarsi sui contenuti. Biden ha voluto innanzitutto rivendicare gli obiettivi conseguiti nei primi cento giorni del proprio governo: a partire dalla campagna di vaccinazione.
"Quando ho prestato giuramento, meno dell'1% degli anziani era completamente vaccinato contro il Covid-19", ha dichiarato. "Cento giorni dopo, quasi il 70% degli anziani è completamente protetto. I decessi degli anziani per Covid-19 sono diminuiti dell'80% da gennaio. In calo dell'80%", ha aggiunto. Il neo presidente ha anche rivendicato le misure di contrasto agli effetti recessivi della pandemia. "Abbiamo mantenuto il nostro impegno e stiamo inviando assegni da 1.400 dollari all'85% di tutte le famiglie americane. Abbiamo già inviato più di 160 milioni di assegni", ha affermato. L'inquilino della Casa Bianca ha quindi difeso a spada tratta la sua proposta di riforma infrastrutturale recentemente presentata: una riforma dal valore complessivo di circa duemila miliardi di dollari, che "creerà milioni di posti di lavoro ben retribuiti: lavori su cui gli americani possono crescere le loro famiglie". E' in questa cornice che il neo presidente ha sottolineato la competizione con la Cina e la volontà di tener saldo il principio del "Buy American", per tutelare e rafforzare il settore manifatturiero americano.
Ora, i successi della campagna di vaccinazione sono sotto gli occhi di tutti. E l'inquilino della Casa Bianca aveva senza dubbio il diritto di rivendicare questo progresso. Peccato che non sia stato altrettanto solerte nel riconoscere le difficoltà che la sua amministrazione sta affrontando: a partire dalla crisi migratoria che, ormai da settimane, sta interessando il confine con il Messico. Un dossier spinoso, che – anche quando ha parlato delle sue proposte sull'immigrazione – il presidente ha evitato di citare nel proprio discorso. Un discorso che, nel suo complesso, ha registrato alcuni elementi problematici.
In primo luogo, come abbiamo già in parte visto, Biden ha promesso un'ingente mole di investimenti pubblici: non solo nel settore infrastrutturale in senso stretto, ma anche in quello dell'istruzione, della previdenza sociale e dell'ambiente. Qualcuno ha già proposto il paragone con la Great Society di Lyndon Johnson: un paragone che può avere magari anche un senso a livello di ambizione, ma che si scontra con un nodo oggettivo. Johnson poteva infatti contare su un'ampia maggioranza parlamentare: un vantaggio di cui oggi Biden non dispone. Al Senato, repubblicani e democratici sono in parità, mentre la maggioranza dell'asinello alla Camera è di una manciata di seggi. Riforme tanto ambiziose (e costose) con simili numeri parlamentari non è facile portarle avanti. Soprattutto se, come in questo caso, richiedono un aumento della pressione fiscale: scenario, quest'ultimo, che vede sul piede di guerra i repubblicani e che registra anche i mal di pancia di alcuni senatori democratici centristi.
Il secondo elemento problematico di questo discorso è strettamente collegato al primo: le riforme ambiziose, soprattutto se si hanno maggioranze parlamentari risicate, dovrebbero essere condotte in un clima il più possibile bipartisan. Il punto è che questo oggi non sta accadendo. Nonostante il presidente abbia nei mesi scorsi assai spesso invocato l'unità nazionale, nei fatti ciò non si è verificato. I democratici stanno infatti portando avanti un'agenda legislativa particolarmente divisiva, che – in molti casi – non ha ottenuto l'appoggio di un solo voto repubblicano (anche – attenzione – di quei repubblicani ostili a Donald Trump). Ci riferiamo soprattutto alla controversa riforma elettorale del For the People Act (ieri citata e difesa da Biden) o all'altrettanto controverso (e probabilmente incostituzionale) disegno di legge che vorrebbe conferire statualità a Washington DC: un disegno di legge che è stato approvato alla Camera con pochissimi voti di scarto. Senza poi trascurare la contestatissima commissione, recentemente istituita da Biden, per riformare la Corte Suprema. Non sarà un caso se dai recenti di sondaggi AbcNews/Washington Post è emerso che il 60% degli americani auspichi una collaborazione fattiva al Congresso tra democratici e repubblicani: non provvedimenti unilaterali approvati a strettissima maggioranza.
Un terzo punto problematico è stato poi quello della politica estera. Nel discorso, Biden ha ribadito la sua linea di internazionalismo liberal, sostenendo che i nemici dell'America siano gli "autocrati del mondo" e rinverdendo il suo classico messaggio di alleanza tra le democrazie e tutela dei diritti umani. "Nessun presidente americano responsabile può tacere quando i diritti umani fondamentali vengono violati", ha dichiarato ieri. L'intento di per sé sarebbe anche nobile. Il punto è che questa sua linea, almeno nei primi cento giorni, ha già mostrato qualche cortocircuito. Se ha effettivamente aumentato la pressione su Russia e Arabia Saudita in nome della difesa dei diritti umani, Biden ha però anche avviato una distensione con l'Iran khomeinista: una mossa che certo mal si sposa con la salvaguardia degli standard politici liberali.
E veniamo quindi al capitolo cinese. Nel suo discorso, il neo presidente americano ha parlato anche di Pechino. "Siamo in competizione con la Cina", ha detto. "L'America", ha aggiunto, "si opporrà a pratiche commerciali sleali che minano i lavoratori e le industrie americane, come i sussidi per le imprese di proprietà statale e il furto delle tecnologie americane e della proprietà intellettuale". Anche qui però si scorge qualche problema. Dal discorso emerge infatti una sorta di distinzione tra gli "autocrati", definiti "avversari", e la Cina, definita "un competitor". Una scelta lessicale interessante, che fa emergere come la linea di Biden rispetto a Pechino non voglia essere di confronto troppo duro. Nonostante le critiche mosse al Dragone in questi mesi sui diritti umani, è sempre più chiaro che il neo presidente americano punti a creare un sistema di cooptazione (a sfondo primariamente economico) con la Cina, evitando quelle turbolenze che caratterizzarono invece l'epoca del suo predecessore alla Casa Bianca.
Si tratta di una linea che, mutatis mutandis, portò avanti anche Bill Clinton, convinto, all'epoca, di poter inserire il Dragone in un quadro di relazioni politico-commerciali a guida sostanzialmente americana. Un progetto che è poi in buona parte fallito: non solo la Cina ha infatti aumentato notevolmente la propria influenza politica in seno agli organismi internazionali, ma ha accentuato le pratiche commerciali sleali a danno degli Stati Uniti. Senza contare che l'evoluzione liberale, auspicata da Clinton, del suo sistema politico interno non si sia affatto verificata. D'altronde, che Biden non volesse una rottura effettiva con Pechino era risultato chiaro da alcuni dei suoi primi atti di governo: il rientro immediato nell'Oms e la ripresa dell'accordo di Parigi, oltre al via libera alla candidatura di Ngozi Okonjo-Iweala come direttore generale del Wto. D'altronde, alcuni settori che hanno fortemente spalleggiato i democratici alle ultime elezioni (a partire dalla Silicon Valley) hanno sempre visto con fastidio eccessive turbolenze economiche tra Washington e Pechino.
Insomma, il discorso di Biden ha messo indirettamente in luce i problemi strutturali di questa presidenza. Una presidenza che deve fare i conti non solo con un Paese diviso, ma anche con Partito democratico pervaso da profonde fratture intestine. I toni solenni e le alte idealità poggiano su basi particolarmente fragili. E mentre Biden – con accenti quasi biblici – parla di "luce e speranza", qualche dubbio sull'effettiva solidità di questa presidenza onestamente viene.