Economia
April 05 2018
Circa 19mila occupati in più rispetto al mese precedente e un tasso di disoccupazione del 10,9%, in calo di tre decimi di punto. Sono gli ultimi dati sul mercato del lavoro italiano pubblicati dall’Istat e relativi a febbraio, che riportano finalmente un po’ di buone notizie.
Nel secondo mese dell’anno, secondo l’Istituto nazionale di statistica, sono tornate a crescere anche le assunzioni stabili a tempo indeterminato (+54mila unità), che a gennaio avevano registrato invece una variazione negativa.
Come sempre avviene quando ci sono nuovi dati sull’occupazione, negli ultimi giorni è tornato di attualità il dibattito sul Jobs Act, la riforma del lavoro del governo Renzi che i vincitori delle ultime elezioni del 4 marzo, la Lega e il Movimento 5 Stelle, vorrebbero cancellare o almeno cambiare radicalmente.
Ma è giusto o no rottamare il Jobs Act? Quali sono stati gli effetti della riforma del lavoro? Di fronte a questi due interrogativi, ci sono oggi due posizioni contrapposte. La prima è proprio quella della Lega e dell’M5S,che hanno fatto opposizione dura al governo Renzi e hanno sempre messo in evidenza un dato: negli ultimi 3 anni, anche se il numero totale degli occupati è cresciuto di quasi un milione di unità,si sono creati per lo più posti di lavoro precari.
Oggi gli italiani assunti con un contratto a tempo determinato sono infatti oltre 2,9 milioni, un record storico mai raggiunto prima. E’ vero che contemporaneamente sono aumentati anche i posti di lavoro stabili a tempo indeterminato (+500 mila in tre anni). Ma,a ben guardare, questo incremento è stato ottenuto per lo più grazie agli incentivi sui contributi da pagare, concessi negli anni scorsi dal governo alle imprese che reclutavano un lavoratore con un inquadramento stabile. Non appena gli incentivi sono venuti meno, come nel 2017, i contratti a tempo indeterminato hanno subito una flessione, seppur marginale (-24mila).
Una lettura diversa dei dati è arrivata di recente dall’economista dell’Università di Torino Pietro Garibaldi e dal suo collega bocconiano Tito Boeri,che è anche presidente dell’Inps. Entrambi sono stati tra i primi studiosi a proporre una delle novita’ introdotte dal Jobs Act: il contratto a tutele crescenti, cioè l’assunzione a tempo indeterminato senza le protezioni dai licenziamenti previste dall’articolo 18.
Invece di guardare ai dati complessivi sull’occupazione, Boeri e Garibaldi hanno effettuato uno studio attingendo alla banca dati dell’Inps e concentrando l’attenzione soltanto sulle aziende con più di 10-15 addetti. Sono state infatti queste imprese a essere interessate dalla novità del contratto a tutele crescenti, visto che in quelle con meno di 15 dipendenti l’articolo 18 non è stato maiapplicato,già da prima che arrivasse il Jobs Act.
Nel loro studio, Boeri e Garibaldi hanno notato due fatti. Innanzitutto, dopo l’arrivo del Jobs Act è aumentato sensibilmente (da 10mila a 12mila al mese)il numero di aziende piccoleche sono cresciutee hanno superato la fatidica soglia dei 15 addetti, oltre la quale scattava un tempo l’applicazione dell’articolo 18. Inoltre, sempre secondo lo studio, nelle aziende con più di 15 addetti le assunzioni a tempo indeterminato sono cresciute del 50%.
Nello stesso tempo,a onor del vero, lo studio di Boeri e Garibaldi rileva che è cresciutodel 50% anche il numero dei licenziamenti (resi più facili dalla scomparsa dell’articolo 18). Tuttavia, il numero di lavoratori assunti ha superato ampiamente il numero di lavoratori che sono stati licenziati dalle aziende. Con il Jobs Act, insomma, per Garibaldi e Boeri il lavoro è diventato in Italia più flessibile. Ma non è detto che sia un male.