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August 16 2019
«Guardi qui!».
Il suo cellulare?
No, non il cellulare: questa applicazione.
Al centro dello schermo c’è un numero molto grande, 44 mila e rotti. Cosa è?
(Sorriso). Sono i posti di lavoro disponibili, in questo preciso momento, in Missisippi. Domani potrebbero essere di più o di meno.
E come funziona?
Come quando cerchi una pizzeria dove ordinare una cena su una app di consegne. Solo molto più sofisticato.
Facciamo una prova.
D’accordo: tu sei legato con il tuo nome, diciamo che sei Mimmo Telese.
La app ha il tuo curriculum e i tuoi dati anagrafici, professionali e lavorativi.
Ovviamente. Diciamo che Mimmo Telese vuole fare il saldatore. E lo vuole fare a Jackson.
Metto il mio nome, indico la località e...
Vede? Gira una clessidra, passa meno di un minuto e abbiamo il nome di cinque ditte.
Incredibile.
La app è profilata in modo tale da dirti: dove è il posto di lavoro, quali sono le condizioni contrattuali, quanto è il monte ore che devi lavorare e - soprattutto - quanto è lo stipendio che viene offerto.
In questa prima opzione 2 mila dollari, l’ultima arriva a 3 mila.
(Sorriso solare). È il mercato del lavoro! Allora il nostro Mimmo Telese manda una mail, riceve una risposta con un appuntamento, va a farsi i colloqui e sceglie.
Sembra troppo bello.
Funziona così. L’80 per cento dei lavoratori del Mississippi che usa questa app ha trovato un impiego.
È il suo famoso software! Quello per trovare lavoro.
(Allarga le braccia). Proprio lui.
Hanno detto che lei è venuto dall’America in Italia, a dirigere l’agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro, per vendere questo brevetto.
Grazie per la domanda, che mi permette di rispondere subito a questa diceria: è una sciocchezza colossale, una balla.
Perché non è vero che lei lo vuole vendere?
Ma si figuri! Venire in Italia è stata per me una perdita economica. Ma al tempo stesso una arricchimento d’esperienza professionale impagabile.
E quindi?
Uno che torna in Italia perché vuole essere utile e restituire qualcosa al Paese dove è nato si mette a vendere il software alla società per cui lavora come presidente? È una follia solo pensarlo. E poi c’è un’altra cosa.
Me la dica.
Il software non è nulla. Non è un brevetto. Il fattore rivoluzionario di questo sistema sono i dati.
Ma lei pensa davvero che si può ripetere tutto questo in Italia?
E perché non dovrei? Qui ci sono più soldi, più risorse, più ricchezza.
Non si sente troppo ottimista? I centri per l’impiego sono a pezzi.
Non è vero.
No?
Senta, io li sto girando uno a uno. Non tutti sono disorganizzati come si dice. Molti funzionano già, altri hanno bisogno di essere riorganizzati. Ma partiamo da un’ottima base.
Quanti anni pensa che serviranno?
(Sorriso). Anni? Noi non abbiamo tutto questo tempo. Ci dobbiamo mettere mesi.
È serio?
Ho già riorganizzato Anpal servizi. Adesso mi occuperò dei centri. E ora sono arrivati i navigator.
La grande polemica. De Luca dice che non li vuole.
Spero che il governatore della Campania ci ripensi presto. I navigator sono forze giovani, entusiasmo, cultura. Li abbiamo scelti così. E adesso li formiamo.
Lei riuscirà a ripetere il miracolo del Mississippi?
(Sorriso). Dobbiamo riuscirci.
Mimmo Parisi, professore ed esperto
di lavoro. Luigi Di Maio lo ha scelto, corteggiato, strappato allo Stato più povero d’America, il Mississippi, dove partendo da zero - e grazie al software di cui avete letto - ha costruito il modello di domanda e offerta che ha rivoluzionato il mercato del lavoro. Adesso vuole replicare in Italia. Di Maio, con un lapsus simpatico lo definì «italo pugliese». In realtà, è un italo americano con alle spalle una storia da romanzo d’altri tempi. Orfano, emigrato, uomo pervaso di ottimismo incredibile e prodotto di un mix fra orgoglio terrone e spirito reaganiano. Solo la sua biografia spiega il suo ottimismo e la sua ambizione. La scorsa settimana ha riunito per la prima volta i suoi navigator, tra musiche dei Queen, discorsi e fiducia incrollabile nel metodo: «Saranno le persone che andranno a cercare i lavoratori per ricongiungerli al lavoro. Saranno la scintilla che accende il circuito».
Cosa faceva suo padre?
(Sospiro). Mio padre? Non lo conosco.
Davvero?
Nulla, zero: non so cosa facesse, non l’ho mai incontrato in vita mia, non so se lui sappia che esisto.
Ma come è possibile?
Mia madre non mi ha mai raccontato nulla di lui, è stata una sua scelta. Mi diceva soltanto, quando ero bambino: «Tu sei frutto di questo mio amore. Il primo grande amore di tua madre».
Sembra la parafrasi della canzone di Lucio Dalla, 4 marzo 1943: «Diceva che era un uomo/veniva dal mare». È stato un dramma per lei?
Lasciamo perdere. È troppo complesso. È la chiave di tutta la mia vita. È un nodo con cui mi confronto da tutta la vita.
Come e quando ha trovato il modo di convivere con questa assenza?
(Sorriso). Mai.
Mai?
È stata la prima grande lezione che ho avuto dalla vita. Quello che non puoi controllare devi imparare a gestirlo. Nel bene o nel male, ma devi.
Si riesce?
Ma guardi che la mia infanzia non è una storia lacrimevole. Per me, nel mio ricordo, è un periodo bellissimo e felice. Oggi posso dire che questa esperienza mi ha anche arricchito.
Cosa vuol dire prima di tutto essere «orfano», per lei.
Apprezzare più di chiunque altro il valore della famiglia.
Però lei non riesce a vivere la sua infanzia neanche con sua madre.
No. Si immagini una ragazza madre, negli anni Sessanta, senza soldi, al Sud.
Cosa fa?
Sceglie di emigrare, a vent’anni. E se ne va al Nord.
Come si chiama?
Lucia: oggi lei ha 74 anni. E fece una scelta per lei importante, che ha cambiato la mia vita.
Quale?
Capì che non avrebbe potuto mantenermi e crescermi da sola, a Milano, e nel frattempo lavorare. E così mi mise in un orfanotrofio, dopo aver cercato una struttura in cui sarei stato accolto nel miglior modo possibile.
Quanti anni aveva?
Appena nato. Poi all’età tre anni sono stato trasferito nel Villaggio Sos a Ostuni.
E com’era?
Per un’incredibile coincidenza fui il primo bambino a entrare in questo progetto innovativo, che si discostava dagli istituti tristi che abbiamo in mente tutti.
In che senso?
Era un modello basato sulle case famiglia, su un clima familiare, su istitutrici che erano molto simili a dei genitori per l’amore e per la cura che ci dedicavano.
Funzionò?
Pensi che ancora oggi c’è una targa in quel villaggio dedicata a quel primo bambino: «La casa Mimmo». Diventai mio malgrado un modello.
E che ricordo ha di quegli anni?
Una delle esperienze più belle, più formative e più felici della mia vita.
Chi era la donna che si prese cura di lei?
Si chiama Lina. Io la considero a tutti gli effetti una madre. Ed ecco il primo paradosso della mia vita: ho due madri.
E c’è stata anche una figura maschile di riferimento?
Sì, si chiama Giancarlo Corrado. Era uno degli «amici del villaggio» di cui le parlavo, quello che si è preso cura di me. Oggi a 76 anni. Non è curioso? Nato senza un genitore importante, oggi me ne ritrovo tre.
Per lei quest’uomo è stato come un padre?
Oh sì! È stato il primo navigator della mia vita. Le basti sapere che quando faccio la scelta più importante di tutte, ed emigro in America, ci vado accompagnato da lui. È il genitore che mi ha portato per mano in una nuova vita.
E cos’è un navigator?
È qualcuno che ti rende comprensibile la complessità del mondo.
Che scuola superiore sceglie?
(Sospiro). Ecco il punto. Io avrei voluto fare il liceo classico. Ma la scuola in cui ero, il contesto del Sud...
Pensano che per un orfano fosse troppo?
Pensano che quella sia la scuola giusta per i figli della borghesia. Mentre io devo studiare qualcosa che mi garantisca un lavoro subito. E così mi iscrivono all’istituto tecnico agrario.
Ha sofferto per questa scelta?
No, era destino. Quella formazione mi ha dato tante cose che hanno fatto di me l’uomo che sono.
Per esempio?
Il senso concreto della vita, lo spirito pragmatico.
Con quanto si era maturato?
(Ride). Col massimo: 60 sessantesimi. Io vorrei trasmetterle lo spirito con cui studiavo. Pensavo già a cosa avrei fatto dopo. Pensavo che non potevo permettermi di sbagliare perché non avevo nessuna rete protettiva.
E va lavorare presto?
Per tutto quello che le ho detto, inizio a 16 anni, mentre sono a scuola.
E cosa fa?
Prima imbianchino e manovale, poi muratore, ma anche agricoltore e poi pizzaiolo.
Per qualche mese?
Per sei anni. E immodestamente posso dirle che ero bravo.
Quale è il segreto del mestiere?
Una cosa molto importante, per tutto quello che ho fatto dopo. Il pizzaiolo lavora sulla preparazione. Quando inforni le pizze sei già alla fine del tuo lavoro.
Perché?
Perché il segreto di una pizza è nell’impasto.
E come le piace di più? Grossa o fina?
A me piace fina. Ma ho avuto un maestro napoletano, la so fare grossa, buonissima e ben lievitata.
Dove lavorava?
Al ristorante Il Castello, vicino a Piacenza. Ma questo viene dopo.
Tuttavia lei sceglie diiscriversi all’università.
Era un desiderio troppo grande, per me. Il mio riscatto sociale. In questo Giancarlo mi sostiene e mi aiuta.
E che facoltà sceglie?
Agraria: mi laureo con una tesi sullo sviluppo delle comunità, e festeggio con una serata memorabile in pizzeria.
Al Castello?
Glielo ho detto: ho trovato molte famiglie lungo la mia strada.
Che anno era?
Il 1992: era agosto, avevo 26 anni.
E qui lei decide di emigrare, perché? Laureato, in un’università del Nord, si era ricongiunto a sua madre. Perché?
Non è che non trovassi un impiego... come spiegarle?
Ci provi?
Diciamo così. Il modo in cui io mi volevo porre nella vita, non era quello che l’Italia degli anni Novanta mi offriva.
Perché lei era già «americano» nelle sue aspirazioni?
Sì, io ero cresciuto nel mito dell’American dream.
E come lo tradurrebbe, se lo dovesse spiegare a un giovane di oggi?
Il sogno americano è l’idea che nulla e nessuno, tranne te stesso, può mettere un limite alla tua vita.
Ci crede ancora?
Io sono una delle prove che questo è possibile. È l’essenza della democrazia americana, ed è un valore in cui io mi riconosco.
In Italia lei non aveva particolari simpatie politiche, in America sì. Come è possibile?
In America sono conservatore. Sono repubblicano.
E cosa significa?
Decidi come individuo se veramente vuoi contribuire a cambiare le cose. E poi fallo.
Come definirebbe tutto questo?
In due parole. È lo spirito reaganiano.
Arriva in America da studente?
Con una borsa internazionale di 30 mila dollari.
E le bastano?
Nooo! Non scherziamo. Porto con me i risparmi della mia vita.
Lei aveva risparmiato così da tanto da studente imbianchino pizzaiolo? Non ci credo.
Deve crederci. Non avevo speso nulla per me.
Non un cinema? Non una vacanza?
Glielo ho detto. Ero figlio di nessuno e avevo un obiettivo.
Nell’università americana fa subito carriera.
Vengo assunto come ricercatore a sociologia, nel 1998, a 35 mila dollari l’anno.
E sua madre?
Veniva a trovarmi ogni anno.
E Giancarlo?
Come le ho detto mi ha portato negli Stati Uniti. Faceva il direttore amministrativo di una Usl.
Lei diventa sociologo, esperto di demografia.
La persona esiste perché esiste un sistema.
Il giovane Mimmo entra nel sistema americano, e trova anche moglie.
Michelle, la fortuna della mia vita. È lei che mi ispira tutti i giorni a fare quello che faccio.
Come l’ha conosciuta?
(Risata). È imbarazzante! Nel più classico dei riti americani, l’happy hour.
Lo racconti.
Finisce la settimana lavorativa e alle 17 ci troviamo tutti a bere e a chiacchierare. È quello che facciamo negli Stati Uniti, ogni venerdì.
E in un happy hour lei trova Michelle?
L’ho vista. Sono rimasto folgorato. Non le ho mai tolto gli occhi di dosso. Dopo una settimana eravamo usciti insieme.
E inizia a lavorare però il governo.
Vengo coinvolto in un programma di ricerca sul lavoro, per elaborare dati sullo sviluppo economico.
Perché il Mississippi vuole scrollarsi di dosso la sua povertà.
Ho la fortuna di conoscere due grandi governatori: Barbour e Bryan. Inizio a lavorare sui dati, la mia specialità.
Cos’ha imparato?
I dati sono una ricchezza non sono uno scarto. Sono come il petrolio. La società del terzo millennio sarà guidata da una unica bussola, un unico potere: la produzione e dal consumo dei dati.
E all’epoca cosa le dicevano?
Mi prendevano per matto!
Come si fa a portare nello Stato più povero d’America la Nissan?
È stata una scommessa. Che poi abbiamo ripetuto con la Toyota. Il Mississippi è uno Stato piccolo che ha solo 3 milioni di abitanti e una economia essenzialmente agricola. Poteva competere con New York e con la Florida?
Dire di no.
E invece sì. Sa come? Grazie ai dati.
Mi spieghi con un esempio.
Eccolo. C’è un’equazione nei processi aziendali: per ogni assunto devi avere esaminato almeno 30 personequalificate per quel lavoro.
Certo.
Se tu però hai i dati, questa equazione, che ovviamente ha anche un costo, può essere abbattuta.
Ma dietro i dati ci devono essere le persone.
E noi le abbiamo trovate! Il cuore del mio sistema è la formazione: ti preparo, ti connetto e ti sostengo.
Cosa ha imparato in quegli anni?
Un’altra grande lezione della mia vita: «Devi sempre dimostrarti più grande di quello che sei».
E cosa devono diventare i centri per l’impiego italiani?
I pilastri di questo sistema: i nuclei contenitori del capitale umano. Il lavoro c’è sempre. Ma deve trovare la sua strada.
Come può pensare di riuscire a ripetere il miracolo in Italia?
Perché ho iniziato con una ricognizione. Perché sto girando ovunque. E le dico che pochi giorni fa ero a Prato. E quel centro già funziona.
Cosa abbiamo in Italia da cui partire?
Tutto. Abbiamo le risorse e i saperi. Abbiamo la cultura, la creatività, l’intelligenza.
Cosa ci manca?
Fino a ieri? La volontà e la certezza di poter riuscire. Se lei ora gira con me per i corridoi di Anpal tutto questo lo trova.
In quanto vedremo i primi risultati?
In meno di un anno. È una promessa.
Ma come è arrivato sulla poltrona che ricopre oggi?
Una coincidenza del tutto fortuita.
Racconti...
Avevo fatto un intervento in un convegno alla «Sapienza», dove raccontavo questo modello...
Finisce tra gli applausi.
E qualcuno mi dice: «È il futuro,
devi parlare con Luigi».
E lei capisce che era Di Maio?
(Risata sonora). Io non avevo mai sentito nominare Di Maio. Non sapevo neanche che cosa fossero i Cinque stelle. Le uniche stelle che conoscevo erano quelle degli alberghi, ah ah ah.
In che periodo siamo?
Settembre 2018. Mi presentano Di Maio.
E cosa le dice?
«Quello che hai fatto in America tu lo devi venire a fare qui da noi».
E lei gli crede?
No. A ottobre mi richiama e mi dice: «Mimmo, vuoi diventare presidente dell’Anpal? Ci devi aiutare».
E lei?
Io fino all’ultimo non lo volevo fare.
Come ha fatto a convincerla?
Mi ha detto: questa è la tua restituzione. Questo è quello che puoi fare per il tuo Paese. E poi: «Mi dai un anno della vita».
E a questo punto?
C’erano di mezzo una bandiera e il mio orgoglio. È stata una sfida. E io l’ho accettata.
Michelle cosa le ha detto?
«Se lo vuoi fare, devi farlo».
Ha avuto dei dubbi?
Dopo tutte le accuse che io ho subito, secondo lei sarei rimasto, se non credessi in quello che faccio?
Crede ai navigator, assunti con un contratto precario?
Certo. Quei ragazzi vogliono lavorare, essere protagonisti, raccogliere la sfida, crescere.
Ma non li ha scelti lei.
Abbiamo costruito il modello selettivo con cui sono stati selezionati. Ho detto: «Voglio persone capaci di pensare». E questi sono giovani, intelligenti, laureati. Sono l’energia che cambia il mondo.
E adesso?
Me li formo uno a uno.
Non mi ha risposto sulla precarietà.
È una sciocchezza. Tutti siamo precari in questa vita.
Lo dice proprio lei?
Certo. Non esistono posti di lavoro garantiti nel tempo della crisi. Sono le carriere che garantiscono il futuro!
Quanto lavora?
Dalle 5 e 30 alle 22, ogni giorno.
Ha usato la musica dei Queen per le sue convention.
(Sorriso). Yes: We will rock you!
Quale l’ultimo segreto del sistema Parisi che vuole rivelare?
Aprire gli occhi. Tutto è già davanti a noi solo che in questo Paese, molto spesso, anche le persone intelligenti non trovano le soluzioni.
E perché?
(Sospiro). Perché guardano sempre nel posto sbagliato. Quando avremo imparato dove cercare, grazie ai dati, saremo già a metà dell’opera. n
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