Lifestyle
December 05 2012
A un certo punto si è alzato dalla sedia nel patio e ha invitato il cronista a seguirlo dentro il Solana Beach coffee company che aveva scelto per l’appuntamento. Voleva dimostrare materialmente come funzionava la «truffa dei popcorn dei cinema», uno dei più brillanti casi della sua precedente carriera di investigatore privato. E quando poi ha cominciato a parlare di surf è stato necessario trattenerlo dal correre sul molo a sbirciare le onde. Don Winslow è un entusiasta. Anche se ha un nome da padrino ed è nato il 31 ottobre, Halloween, il giorno delle streghe.
Piccolo, magro, stempiato, è anche fisicamente il contrario dei duri dei suoi romanzi hard boiled. Ha 59 anni, ma ha cominciato a pubblicare solo nel 1991 e da appena 15 anni fa lo scrittore di professione, senza più distrarsi con lavoretti «alimentari». Quindi, prendendo a prestito il titolo di uno dei suoi libri più famosi, L’inverno di Frankie Machine, si può tentare il gioco di parole: «la primavera di Don Winslow». Ride, ma risponde serio: «Posso migliorare. Non ho ancora scritto la mia opera definitiva».
Ne ha già scritte però talmente tante di buone da meritarsi il Raymond Chandler award del Courmayeur noir in Festival (10-16 dicembre), andato in passato a colleghi prestigiosi come Osvaldo Soriano, John le Carré, John Grisham, Elmore Leonard, Michael Connelly. È il suo momento: Einaudi-Stile libero ha appena pubblicato I re del mondo, prequel di Le belve, trasformato da Oliver Stone in un film di cui Winslow ha scritto la sceneggiatura, così come per Satori, che l’anno prossimo sarà interpretato da Leonardo DiCaprio.
Per arrivare in tempo all’appuntamento a Solana Beach (23 miglia a nord di San Diego) il cronista si è messo in moto da Los Angeles alle 7.15 di mattina. Ma come lamentarsi? Lui era sveglio come sempre dalle 5 e aveva già in tasca un buon bottino: sei pagine del nuovo romanzo, che avrebbe ricontrollato l’indomani a mente fredda. Ed era pronto ad affrontare questa intervista esclusiva con Panorama come se fosse il terzo grado di uno dei suoi romanzi.
Raymond Chandler & Don Winslow, bella coppia...
È il padrino di tutti quelli che fanno il mio mestiere. E fra parentesi è sepolto a poche miglia da qui, a La Jolla, per cui ogni tanto lo vado a salutare. Dovrei odiarlo, perché so che non scriverò mai un libro perfetto come Il lungo addio, il cui incipit so a memoria: «Terry Lennox, quando lo vidi per la prima volta, era ubriaco in una Rolls-Royce fuori serie, davanti al Dancers». Ho molte sue frasi nel mio computer, compreso il saggio La semplice arte del delitto. Quando mi sento perso nella foresta di uno dei miei romanzi, corro a rileggerle, perché Chandler è la bussola, il Nord.
Altri scrittori cui deve qualcosa?
Ho cominciato imitando semicoscientemente Elmore Leonard. James Ellroy è ancora una influenza notevole, come Michael Connelly. Poi Joseph Wambaugh, Jeff Parker e Charles Willeford.
Sa che in Italia hanno scritto che dopo il ritiro di Philip Roth lei è il più grande scrittore contemporaneo americano?
Sono rimasto senza parole. Che devo dire? Grazie. Fuori del mio genere ho un debole per Jim Harrison, il suo La strada di casa è superbo. Ma c’è anche Cormac McCarthy: Cavalli selvaggi è così bello che non ho avuto il coraggio di leggerlo una seconda volta, perché un finale così potente lo ricordo solo in Per chi suona la campana di Ernest Hemingway.
Quanto è stato difficile avere successo?
Il mio primo romanzo nel 1991 è stato rifiutato da 14 editori. Poi ha vinto il premio Edgar, dedicato a un altro gigante: Edgar Allan Poe.
Perché ha aspettato tanto per provare a scrivere?
Allora mi dicevo che ero troppo occupato a procurarmi da vivere (è sposato da 28 anni e suo figlio ne ha 23, ndr). Col senno di poi, era semplice paura di un fallimento.
Come definisce il suo stile?
Frastagliato. Cambio spesso punto di vista, anche se dicono che non si deve fare, perché si sottovaluta l’intelligenza dei lettori: se un giocoliere usa cinque palle e ne fa cadere una, è atroce, ma se riesce a mantenerle tutte in aria, è sublime. Il mio primo vero successo è stato Bobby Z, il signore della droga, nel 1997, con la possibilità di smettere con le investigazioni. L’ho scritto in treno fra San Juan Capistrano e Los Angeles. Poco più di un’ora di viaggio in cui l’obiettivo era un capitolo a volta. Quando il conduttore annunciava «Union Station di Los Angeles, 10 minuti», a qualunque punto fossi dell’azione la facevo finire.
Cosa leggeva da bambino?
Solo biografie e tutto William Shakespeare: ero così fissato che ho tentato di tradurre il Giulio Cesare in latino.
Quale è una sua giornata tipo?
Sveglia alle 5, caffè che una volta mi macinavo da solo, proprio come Frankie Machine, 10 minuti di kata, le forme di una combinazione di stili di arti marziali. Leggo i giornali e poi comincio a scrivere, fin verso le 11. Pranzo e poi nel pomeriggio ancora sport (corsa o camminata in collina, nuoto o surf), prima di ricominciare a scrivere. Se ho ancora idee fresche e energia, continuo dalla mattina. Se no mi dedico a qualcosa d’altro. Ho tre romanzi in lavorazione, come un cuoco con cibi in diversi stati di cottura.
Ha parlato di giornali. Che cosa legge?
Uso internet, perché alle 5 non li troverei. Comincio dal quotidiano locale, San Diego union, poi il Guardian di Londra, il New York Times e il Washington post. Per quanto riguarda i periodici, li leggo ancora su carta: Time, Rolling Stone (l’ultimo esempio di giornalismo investigativo rimasto in America), Vanity fair, Esquire, Trail runner, Outside, e Sports illustrated, che è la mia droga da quando ho 11 anni; l’abbonamento è il consueto regalo di compleanno di mia madre.
Lei, nato nella East Coast, cosa ha trovato in California?
Ero in un albergo a Costa Mesa, zona noiosissima. Avevo un giorno libero perché un testimone mi aveva rinviato l’appuntamento, ho preso una macchina e ho puntato a sud sulla Pacific Coast Highway: Laguna Beach, Corona del Mar, Crystal Cove, Dana Point mi sono sembrati i più bei posti che avessi mai visto. Ho chiamato mia moglie Jean, in Connecticut, e le ho detto di venire a vedere. Per tre anni siamo andati avanti e indietro, finché una sera lei mi ha confessato che l’idea di ripartire la faceva sentire male. La mattina dopo sono andato a comprarle un po’ di vestiti. Era il 1992, 20 anni fa.
Anche sua moglie è una surfista?
No, è nata in una fattoria del Nebraska. Ama la spiaggia, ma è difficile anche solo farla entrare in acqua. Dice che vuole sapere dove poggia il sedere. Io invece sono cresciuto in un villaggio di pescatori e mio padre, che era un marinaio, mi ha buttato in mare quando avevo 4 anni, e ovviamente non sapevo nuotare.
Lei dice sempre che non scrive mystery ma crime. Quale è la differenza?
Sta nella domanda di partenza: non chi l’ha fatto, ma come l’ha fatto, e perché? C’è una bella frase che è rimbalzata fino a me, detta da Michael Connelly a Joseph Wambaugh: «Non mi interessa che effetto hanno i poliziotti sui crimini, ma che effetto hanno i crimini sui poliziotti». Per me è lo stesso, ma per i criminali.
Chi è per lei il lettore: qualcuno da manipolare, il suo vero padrone, un amico, un complice?
È l’uomo o la donna che incontro in un bar o su un treno e siccome dobbiamo restare insieme per qualche ora stringiamo il patto di divertirci insieme. I lettori spendono soldi e tempo e io voglio contraccambiare portandoli in posti dove non potrebbero andare da soli, facendogli vivere avventure diverse dalla quotidianità.
Anche sua sorella, Kristine Rolofson, è una scrittrice. Coincidenza o genetica?
Mia madre era una bibliotecaria e mio padre, veterano della marina, un formidabile storyteller, come i suoi commilitoni che frequentavano casa nostra. Io e Kristine, che ha 3 anni più di me, siamo cresciuti ascoltando storie meravigliose, piene di avventure e luoghi esotici.
La cosa più imbarazzante che le è capitata come scrittore?
Essere confuso con Don Winslow, autore di romanzi porno. Un giorno ne ho trovato uno in una libreria di San Antonio in Texas: l’ho pagato in contanti perché con la carta di credito avrebbero creduto che ero lui.
Se facessero un film su di lei, quale attore sceglierebbe?
Stanley Tucci. Ha il mio fisico, da peso piuma.
E per sua moglie?
Goldie Hawn. Le assomiglia, anche per vitalità.
Un sogno segreto?
Sparire. Cambiare nome, andare su un’isola da qualche parte. Continuare a scrivere, perché non potrei vivere senza, ma magari senza più pubblicare.
Sua moglie lo sa?
Non ancora, ma lo saprà presto perché legge un po’ di italiano. Ma anche lei fa parte del piano, ogni tanto facciamo in piccolo qualcosa del genere: saliamo in macchina e andiamo, senza sapere dove.