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March 06 2015
Dalla prima comparsa in Italia negli anni 90 a oggi i centri che assistono le donne maltrattate sono cresciuti in modo impressionante, quasi quanto il fenomeno della violenza. Sono centinaia, nati dalla volontà di studiare e arginare il fenomeno. Settanta di questi si sono coordinati in D.i.Re, Donne in Rete Contro la Violenza e tra questi c’è il Cadom, Centro Aiuto Donne Maltrattate, un’associazione di donne che opera a Monza e sul territorio della Brianza dal 1994. Un bacino di 860mila utenti che in vent’anni di attività ha seguito 4000 casi, una media di circa 200 l’anno, senza contare le segnalazioni fatte da terzi, amici e parenti delle vittime che hanno cercato sostegno qui. Il progetto associativo si fonda sulla convinzione che la donna, anche se maltrattata e in situazione di disagio, ha dentro di sé la capacità di progettare il futuro e le risorse per uscire dalla violenza, riprendendo in mano la propria vita. Questo percorso è lungo e difficile: affrontato insieme ad altre donne può diventare più facile. Presidente del Cadom è Mimma Carta.
È cambiata la fisionomia della donna che si rivolge a voi?
È cambiata molto la sua età. La violenza familiare continua a essere un fenomeno che attraversa la società in modo trasversale, colpisce poveri e ricchi, analfabeti e plurilaureati. Ma mentre un tempo la donna che veniva a cercarci era un’adulta di mezza età, oggi a chiamarci sono ragazze giovanissime, “fidanzatine”, e donne anziane. Queste ultime sono spesso vittime di violenza da parte dei figli, uomini costretti dalla crisi a tornare a vivere con i genitori e che sfogano in casa le loro frustrazioni. Registriamo un altro dato preoccupante: la scomparsa delle donne immigrate. Inspiegabile se si pensa che la convenzione di Istanbul del 2011 garantisce loro il patrocinio gratuito e il permesso di soggiorno.
La violenza alle donne è ancora un problema culturale?
Sono convinta di sì, non può essere considerata una semplice emergenza. Servono leggi che intervengano sulla scuola e sull’educazione dei bambini: inseriamo nei programmi scolastici l’educazione all’affettività e alla sessualità. E serve che la società intervenga in modo più incisivo su alcuni atteggiamenti maschili e maschilisti che finora sono stati accettati.
Come definirebbe oggi il ruolo di questi centri nel rapporto con le istituzioni? C’è interesse per la questione femminile?
Il rapporto è tiepido. Per cominciare non abbiamo più un Ministro per le Pari Opportunità e a mio avviso questo è sintomatico di un interesse debole per una questione considerata non prioritaria. Ora la Regione Lombardia, per avere fondi da destinare alle associazioni come la nostra si è impegnata entro il 2016 a creare, sul territorio, 44 centri contro i circa 16 esistenti e questo comporta una dispersione di fondi e di energie che non può che danneggiarci. Si lavora sulla quantità anziché sulla qualità del servizio offerto e questo non ci piace. Pare un po’ offensivo, nel 2015, chiudere le donne in una cornice da spolverare il 25 novembre, per la triste conta delle uccise, e ogni 8 marzo con modalità da routine.