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February 11 2018
Piccolo fazzoletto d'Italia balzato sul proscenio internazionale da quando Matera è stata nominata capitale europea della cultura per il 2019, la Basilicata è una terra di solide tradizioni letterarie e, fin dai tempi di Carlo Levi, musa ispiratrice per la sua bellezza "dolente", intimamente connessa a una dimensione etica ed esistenziale. A queste fonti attinge La scordanza, esordio al romanzo di Dora Albanese ambientato negli anni Ottanta nell'immaginaria Muggera: un borgo lontano dai riflettori, schivato dalla modernità, indurito da relazioni che poggiano su sistemi castali e sull'antico connubio fra la pietra e i boschi.
La vicenda famigliare è narrata lungo l'asse madre-figlia-nipote, una triade percorsa da un tremito interiore. Al centro spicca la figura di Caterina, bella e fragile e svergognata donna con la sfortuna di avere avuto in dote occhi che attiravano gli sguardi. Il sangue era il laccio che teneva insieme la sua famiglia, insieme al senso di colpa del marito Antonio quando la picchiava e di Eustachio, suo figlio, che l'avrebbe voluta difendere, alla remissività di sua madre Eufemia. La violenza domestica era lo specchio di un "Sud che piangeva e taceva, gridava e nascondeva e che tendeva al buio della costrizione famigliare anche se tutt'intorno splendeva il sole".
Per affrontare la ribellione Caterina costringe sé stessa alla fuga e a una serie di dolorose rinunce. Abbandona i figli - Eustachio e il piccolo Francesco non ancora svezzato - e accetta la lusinga della passione per traversare la fiumara della scordanza, quella morte simbolica che nel rito tramandato dalle sarte di Muggera era metafora dell'unico trapasso desiderabile: attraversare il ruscello e dimenticare tutto della vita terrena. Finisce invece tra le braccia di un altro orco appostato tra i calanchi, un altro poveraccio che concepiva l'amore come vendetta della vita. Eufemia e Eustachio sublimano il dolore nella malattia, la famiglia si arrende all'infausto destino.
Senza indugiare troppo sugli arcaismi meridionalisti, Dora Albanese concentra l'indagine sulla dialettica "scandalosa" tra femminilità e maternità, colta nell'istante in cui una donna frantuma l'identificazione di sessualità e riproduzione. In quanto "colpevole di voler essere svuotata da ogni responsabilità materna", Caterina scoperchia il tabù di Medea: si può abbandonare (uccidere) un figlio e tuttavia continuare ad amarlo? Si può restare una madre sentendosi figlia del proprio figlio? Di questo in fin dei conti puzzava la tristezza delle donne di Muggera: la maternità era la gabbia e il cemento che le proteggeva dalla vergogna di sentirsi ancora donne.
Il sogno purificatore di Caterina s'infrange contro questi dilemmi annidati nel pozzo dell'animo umano, e il bello della Scordanza è che non ci propone una via di uscita. Con ardore racconta invece che il coraggio di ribellarsi a una società basata sulla prevaricazione, l'ignoranza, la sottomissione e la paura, porta con sé il tormento di aver rovinato per sempre i propri figli. E che viceversa la forza di sopportare, stando a guardare i figli farsi divorare da un marito o dalla vita, si accompagna da secoli a un nugolo di sensi di colpa. Qui vediamo figli costretti ad ammalarsi per non sentirsi responsabili dei propri genitori, a fingersi zoppi per farsi accettare.
La scordanza è un romanzo poco rassicurante malgrado il ritmo narrativo sia piacevole, delicato. I suoi tabù sono costantemente fra noi, del resto gli orchi non abitano mica solo grotte scavate nelle pietre ma li puoi trovare negli uffici e nelle scuole, nei camerini, nei salotti delle famiglie. Però la cupezza è stemperata dagli antidoti che Dora Albanese ha frapposto alla maledizione della brigantessa: l'amore tra nonna e nipote, l'unica alleanza pura, autentica, senza tornaconto in un mondo di relazioni famigliari imbastardite; la dolcezza di Veronica, la ragazza dalle "lacrime guardanti"; e gli aspri orizzonti della terra lucana, paesaggio-anima d'irresistibile malinconia.
Dora Albanese
La scordanza
Rizzoli
240 pp., 19 euro