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April 01 2018
Quando la bussola della diplomazia impazzisce, si ricorre in genere alla Storia. Scendono così in campo protagonisti del calibro di Henry Kissinger o di Sergio Romano, con opere letterarie dove alla cultura del diplomatico di lungo corso si unisce la visione dello storico.
Il risultato è in genere un’analisi troppo elegante per dirsi cinica, e troppo ecumenica (il richiamo a valori universali, il primato della ragione, ecc.) per tenere il passo coi tempi moderni.
La domanda di fondo rimane senza risposta. Che cosa sta succedendo alla diplomazia? A quali armi la nobile arte (definizione che si applica, guarda caso, anche alla boxe) fa oggi ricorso?
Perché Tayyip Erdoğan ha potuto dare ai tedeschi dei nazisti (la crisi s’innescò ai tempi del referendum costituzionale dell’aprile 2017) ma non per questo i rapporti diplomatici tra i due Paesi si sono interrotti?
Anzi Berlino, per aver libero dal carcere (dopo un anno di detenzione) e forse riaver indietro il suo giornalista Deniz Yücel, ha dovuto e dovrà dialogare con Ankara.
Perché Londra, a indagine ancora in corso, accusa clamorosamente Mosca sul caso Skripal, ma per ora la schermaglia si limita alle quote di diplomatici espulsi (chi? Di quale calibro? A quanto dalla scadenza del loro mandato? Tutte cose che non è dato sapere…); eppure Boris Johnson è arrivato a indicare in Vladimir Putin il mandante dell’attacco con l’agente nervino.
Dal punto di vista delle forme, dare a qualcuno del nazista o del mandante di un quasi omicidio significa essere andati oltre il punto di non ritorno. Eppure, non sarà così.
Dobbiamo allora concludere che la diplomazia è diventata l’arte del parlare a vanvera?
Per il momento è diventata l’arte di farsi sentire. Di far arrivare la propria voce, insomma.
In un mondo dove l’impatto social media (lo scandalo Facebook-Cambridge Analyticadocet) sembra essere la trincea avanzata dello scontro tra potenze, il tono di voce è tutto.
Scambiando alcune intelligenze (frase in diplomatichese che significa “parlando con qualcuno di ben informato”) proprio il caso Skripal ha molto da insegnare.
Ricostruiamo: vigilia sia a Mosca, sia a Londra. Vladimir Putin vuole sfondare quota 70%, Theresa May deve mettere paletti sulla Brexit (e l’Irlanda è questione interna… tanto per intenderci).
Nessuna schermaglia potrebbe accendere riflettori necessari a compattare il quadro interno in ambo i Paesi, perché nel mondo iper-connesso e bulimico dell’informazione moderna, durerebbe lo spazio di un tweet o due.
Di fatto, un ex agente in pensione (e sua figlia) sono oggi le vittime collaterali di un’equazione win-win sia per Londra sia per Mosca: il lunedì successivo ai fatti di Salisbury May blindava l’Irlanda nei confronti della UE e Putin volava al 76%.
Secondo quest’ipotesi teorica il tone of voice dello scandalo è stato proporzionale all’ambizione del risultato da raggiungere. Mentre tutti i diplomatici costretti a fare le valige se ne faranno presto una ragione. Sono, in fondo, i rischi calcolati del mestiere.
Ma ancora: le 14 domande ufficiali che Mosca ha appena rivolto a Londra, prendono soprattutto nel mirino… Parigi. Leggerle per credere. In altre parole, la diplomazia è un gioco di sponda e di specchi, dove il punto di arrivo fa spesso dimenticare quello di partenza.
Queste considerazioni ci portano ad un altro interrogativo. Come dialogheranno le potenze in futuro? A colpi di agguati calcolati sul riverbero nei media? E quindi dei (social) media? Può darsi.
Ne abbiamo forse un’interessante conferma nella polemica che accompagna i tragici fatti di Gaza, dove 16 palestinesi sono rimasti uccisi ieri, e oltre mille feriti, durante la “Grande marcia del ritorno”.
Alcuni demografi ritengono che la componente araba nello stato di Israele sia prossima a diventare la maggioranza; altri negano la cosa, sostenendo come la maggioranza ebraica non sia in discussione.
Ecco il tema di una news (fake?) capace d’innescare un’escalation, alterando addirittura un dato macro, come la demografia, le cui proiezioni di rado sbagliano.
Quali sono allora i rischi principali per una diplomazia che appare esposta ai marosi della propaganda invece di essere in grado di governarli?
E’ essenzialmente quello di distinguere tra la linea rossa delle parole (tante se ne dicono) e quella dei fatti (si veda la guerra siriana) dove una volta infranta la pace oggettiva, ricostruire il dialogo diventa un’impresa quasi impossibile.
A riprova in Siria dal 2011(!) si contano morti e profughi sul pallottoliere di una diplomazia che nessuno ascolta più, anche perché le potenze regionali non prendono più ordini (o almeno non per automatismo, si veda la Corea del Nord con la Cina) dalle Grandi potenze come un tempo.
Il rischio è navigare tutti a vista, e parlare di conseguenza.