«Abbiamo visto saccheggiare, respingere, sovraccaricare la natura istintiva della donna (…), i cicli naturali costretti a diventare ritmi innaturali». Incomincia così “Donne che corrono coi lupi”, e le parole della psicanalista Clarissa Pinkola Estés ben si prestano ad introdurre il tema della fecondazione assistita, considerata non più come l’ultima opportunità dopo molte altre strade percorse, ma semmai la strada più diretta per concepire un bambino che tarda ad arrivare.
Il grido d’allarme è stato lanciato dalle pagine del “British Medical Journal”. «Stiamo utilizzando troppo la fecondazione assistita?». A chiederselo sono esperti della provetta, al lavoro nei centri universitari per la medicina riproduttiva di Amsterdam, Aberdeen e Adelaide. La domanda è forse una conseguenza di questioni sulle quali non si può tacere di fronte ai cinque milioni di bambini nati in provetta dal 1978 a oggi.
Questioni riguardanti i rischi, spesso taciuti, connessi a questa pratica diventata un’industria che dà enormi profitti, e un’infertilità apparentemente dilagante e inarrestabile.
Tre anni fa i ricercatori del Robinson Institute dell’Università di Aldelaide, all’avanguardia nel settore, hanno pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio che evidenzia un aumento di difetti congeniti nei bambini concepiti in provetta, a rischio anche di nascita prematura e mortalità perinatale. Eppure queste informazioni non vengono diffuse. Non viene neppure detto che la percentuale di insuccessi si aggira attorno al 75%. Lo racconta Miriam Zoll, giornalista e consulente dell’Onu, nel suo libro inchiesta “Cracked open: Liberty, Fertility and the Pursuit of High Tech Babies” (Fatta a pezzi: Libertà Fertilità e il Perseguimento di Bambini altamente tecnologici, ndr). Partendo dall’esperienza personale, la Zoll denuncia una pratica che negli Stati Uniti è diventata prassi: si rivolgono, infatti, alla procreazione assistita coppie dai 36 anni in su in cerca di un figlio dopo sei mesi dai primi tentativi di concepimento quando per l’Organizzazione Mondiale della Sanità occorrono almeno due anni per potersi definire sterili. E non è detto neppure questo. Il fatto che nei registri nazionali di fecondazione assistita non venga più indicato per quanto tempo una coppia abbia provato ad avere un figlio spontaneamente prima di ricorrere alla provetta è indicativo.
L’impennata degli ultimi dieci anni, che ha visto concepire in provetta quattro dei cinque milioni di bimbi nati fino a oggi e viene interpretata come segnale di un’infertilità sempre più diffusa, in realtà corrisponde a una netta diminuzione delle patologie per le quali si riteneva necessaria la fecondazione in vitro. Sempre più spesso la diagnosi è sterilità “di origine sconosciuta”. «Mi trattavano come una paziente da curare anche se il mio corpo non aveva nulla di strano, solo un declino naturale della fertilità» racconta la Zoll che all’epoca aveva 41 anni. «In cinque anni ho fatto quattro cicli di fertilizzazione in vitro con i miei ovuli e due con ovuli donati. È stato doloroso e traumatico. E inutile. Ho anche scoperto a posteriori che le donatrici di cui avevo ricevuto gli ovuli erano probabilmente diventate sterili come conseguenza dell’eccessiva stimolazione ormonale».
Oggi Miriam e suo marito sono genitori adottivi.
Alternative? La Natural Procreative Technology, un insieme di tecniche diagnostiche e interventi medici che hanno lo scopo di individuare le cause dell’infertilità e risolverla. Messa a punto dal medico americano Thomas Hilgers, in Europa è tuttora ignorata dal sistema sanitario nazionale.
Al di là di tutto questo resta la domanda se il figlio sia un dono o un diritto. Se è un diritto, c’è da chiedersi come mai non sia contemplato in nessun corpo di leggi finora esistente. Se è un dono, le strade che si aprono sono due: il concepimento spontaneo e l’adozione.