Due anni di guerra in Ucraina ed una solo certezza: ce ne stiamo dimenticando

Due anni e un solo risultato. Un bagno di sangue. L’invasione russa dell’Ucraina non soltanto ha rubato il futuro a un’intera generazione di giovani, che hanno dovuto abbandonare la propria vita e le proprie famiglie per diventare carne da cannone. Così come non ha soltanto cancellato intere città dalle cartine geografiche. E ha sì prodotto una crisi energetica, una alimentare e una diplomatica (vedi le dichiarazioni di ieri dell’ambasciatore russo in Italia, che denuncia un «clima da psicosi pre-bellica»), che hanno stravolto l’economia globale e costretto l’Europa a ripensare il rapporto con l’Oriente.

Ma soprattutto questa invasione sgangherata da parte di un leader nostalgico dell’impero, ha cambiato per sempre il nostro modo di percepire la Russia, che si è definitivamente schierata allo zenith dell’Occidente, con alleanze agli antipodi, e allo stesso tempo ha alimentato il bisogno di difesa e sicurezza del continente europeo, che forse mai è stato così unito e compatto di fronte a un problema. La Russia, per quanto ci riguarda, ha perso il migliore e più ricco cliente del pianeta, ovvero l’Europa stessa, e si è condannato a legami indigesti, come quelli con la Cina, il Venezuela, la Corea del Nord e l’Iran.

Se un risultato positivo c’è stato per Mosca in questi due anni, davvero non lo si scorge all’orizzonte. Quando i carri armati di mosca hanno circondato l’Ucraina e si sono spinti fino alle periferie di Kiev, molti si sono precipitati a dichiarare che alle forze russe sarebbero bastati tre giorni per catturare la capitale e mettere fine a un Paese che solo temporaneamente era diventato indipendente.

Mentre oggi, con la guerra che è ormai entrata nel suo terzo anno, sappiamo che questa non è mai stata una possibilità. Che quel piano era figlio di un errore di valutazione. Difatti, i sogni di gloria di Putin sono rimasti tali, e ad oggi Mosca riesce a malapena a tenere indenne dal conflitto la Crimea, mentre chiama «vittorie» le (poche) conquiste di quella serie di villaggi disintegrati dalle bombe e abbandonati da tutti nel Donbass, dove la guerra sembra essersi cristallizzata da un pezzo.

Un nuovo confine immaginario avvolge le sorti incerte dello scontro: è quello che un giorno vede il presidente russo ottimista, in attesa che il sostegno occidentale all’Ucraina venga meno. E che il giorno dopo lo rende talmente paranoico da pretendere di mettere a tacere ogni possibile rivale per le imminenti elezioni (17 marzo), temendo una sconfitta che tuttavia non può esserci.

E non può perché la paura è ancora la miglior moneta circolante in Russia, e lo sanno bene la vedova e gli amici di Alexei Navalny, ucciso in carcere la scorsa settimana perché simbolo della dissidenza e della resistenza a quel singolare potere che dà la vita e la morte, la dittatura.

Dunque, cosa aspettarsi dal futuro? Questa invasione sinora ha portato morte e distruzione non solo in Ucraina ma anche nella stessa Russia, dove città come Belgorod soffrono ripetuti attacchi e persino le periferie di San Pietroburgo hanno visto le sue preziose raffinerie saltare in aria, bombardate da droni. In tutto ciò la Nato, invece che soggiacere e registrare il dato di fatto, si è allargata a nuovi membri (la Finlandia nel 2023 e la Svezia è in procinto) e quest’anno si doterà di maggiori finanziamenti per sostenere la difesa comune dell’Alleanza Atlantica.

Sul fronte russo, l’esercito ha subìto enormi perdite, e buona parte della flotta del Mar Nero è colata a picco o costretta a riparazioni che umiliano la gloriosa marina russa. E come dimenticare che i mercenari della Wagner, le milizie al soldo di Mosca, si sono ammutinate e hanno marciato su Mosca minacciando un golpe, poi misteriosamente rientrato? Il loro leader, Yevgeny Prigozhin, è morto sopra i cieli russi in circostanze non ancora chiarite: una bomba sull’aereo o un missile della contraerea. Infine, ci si è messa anche la Corte penale internazionale, che ha emesso un mandato di arresto nei confronti dello stesso presidente Vladimir Putin per presunti crimini di guerra.

In conclusione, nonostante la morte in carcere della coscienza critica della Russia, Navalny (cui hanno tappato la bocca in pieno stile sovietico), non ci vuole uno scienziato politico per capire che qualcosa è andato storto laggiù al Cremlino.

Pensare che, ancora nel 2001, quasi il sessanta per cento dei russi sosteneva l’idea dell’adesione della Russia all’Unione europea, mentre oggi quella stessa Unione si prepara a un possibile attacco russo, investe nella difesa come mai prima d’oggi e medita un’unità politica dove Mosca è fuori mentre Kiev è dentro.

Ovviamente, al Cremlino vedono le cose in modo assai diverso. La guerra di «de-nazificazione» va portata avanti a ogni costo, e i numeri dicono che alla lunga i russi prevarranno. Perché quella in fondo è cosa loro. Sostengono che è stato l’allargamento della Nato verso est ad aver indebolito la sicurezza europea e a portare alla guerra con l’Ucraina. Accusano la Nato di aver infranto una promessa fatta al Cremlino, presumibilmente negli ultimi giorni dell'Urss, secondo cui l’Alleanza non avrebbe accettato i Paesi precedentemente nell’orbita di Mosca. E da lì tutto discenderebbe. Ma tutto ciò non è comunque sufficiente a spiegare tre anni di guerra sostanzialmente fallimentari. Non è sufficiente a giustificare la brutalità e la violenza messa in campo alle porte di casa nostra, contro un popolo fratello.

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