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February 27 2024
Anno 10191. «Questo mondo è molto più che crudele»: lo sa bene il giovane Paul Atreides, erede di Casa Atreides, ovvero l’attore divo Timothée Chalamet. Bentornati ad Arrakis, pianeta un tempo chiamato Dune. Benvenuti a Dune - Parte Due! Dopo che ne è stata rimandata l’uscita al cinema, causa sciopero degli attori di Hollywood, l’attesa è finita: il secondo capitolo cinematografico tratto dal romanzo fantascientifico di Frank Herbert è nelle sale italiane dal 28 febbraio 2024, distribuito da Warner Bros. Pictures.
Un’avventura epica che, tra distese sabbiose e scontri armati senza fine, è un buon rapimento visivo – soprattutto se, come noi, adagiati nella sala Energia del cinema Arcadia di Melzo, mare forza 9, il top –. E anche un rapimento fisico: quasi 3 ore di film, durata 165 minuti, verso le manciate ultime di visione si attende il finale come una scialuppa di salvataggio… Per riemergere, infine, sull’orlo della guerra santa!
Rieccolo Paul Atreides (interpretato da Chalamet), il possibile eletto delle profezie, futuro salvatore o conquistatore. È sul bilico delle dune di sabbia, sul bilico della fiducia dei Fremen, il nobile e insidioso popolo di Arrakis, costretto alla lotta e a una vita di nascondigli. La spezia, quella che sembra l’unico tesoro di quel pianeta inospitale desertico, è dono e condanna a dominazioni e stermini. Paul, con i suoi riccioli bruni e visioni che non comprende ancora appieno, è lì a cercare la loro fede. È nel sinuoso mortifero deserto, che è protagonista principale di Dune - Parte Due.
Con le sue trappole e inattese possibilità, il deserto è senz’altro il faro del sequel di Dune (2021), sempre alla regia del canadese Denis Villeneuve, che ha anche sceneggiato insieme a Jon Spaihts. È l’elemento più affascinante, insieme alla dualità sfumata di Paul e di sua madre Lady Jessica (sempre interpretata da Rebecca Ferguson).
Tra ragni botola e topi-canguri, quei Muad'Dib ispiratori, tra liquidi corporei a riempire inaspettate vasche di acqua e tempeste di sabbia, «l’antenata di ogni tempesta», il deserto è il luogo migliore da guardare. E soprattutto è bello vivere la filosofia Fremen, insieme a Paul anche noi catechizzati da Stilgar (Javier Bardem) e Chani (Zendaya), finalmente co-protagonista, coi suoi ostili ma accoglienti occhi blu-spezia. La colonna sonora di Hans Zimmer, già premio Oscar per DuneDune, è ottimo compagno di viaggio. Come pure la fotografia diafana di Greig Fraser e gli effetti visivi di Paul Lambert, anche loro già vittoriosi di Academy Award per il primo film.
Impressionanti e ad alto tasso di coinvolgimento le cavalcate in groppa ai vermi giganti. «Arrakis è bellissimo quando il sole è basso», le parole piene d’amore di Chani.
Una curiosità? La sequenza del verme della sabbia - scena 62 - è stata girata nel corso di tre mesi.
Le location per ricreare il deserto di Arrakis e dei Fremen? La Giordania, con le sue formazioni rocciose. «Una sorta di opera d’arte indipendente, scolpita dalla natura, in grado di rivaleggiare con le cattedrali medievali o rinascimentali di tutta Europa», ha detto il produttore Patrick McCormick. «Eravamo in un luogo chiamato Al Siq vicino a Wadi Araba, un po' più lontano rispetto al nostro solito territorio, che era Wadi Rum, ed è un altro luogo sorprendente, con formazioni rocciose e un canyon che sono semplicemente maestosi. Fotogenico e potente». E poi le vaste sabbie di Abu Dhabi negli Emirati Arabi.
A Budapest, nel centro Hungexpo dalla superficie di 36 ettari, sono stati costruiti set in scala, ad esempio per il pianeta Giedi Primo degli Harkonnen e per la tenda imperiale. E poi per la prima volta la produzione di Dune è volata in Italia: l'inizio delle riprese si è svolto infatti al Memoriale Brion, complesso funebre monumentale situato ad Altivole, in provincia di Treviso, patrimonio Fai. «È una meraviglia architettonica progettata da Carlo Scarpa. È davvero sorprendente e unico. È stata l'ispirazione per la maggior parte dell'architettura Caladan nel primo film, ma non abbiamo mai girato lì», ha detto la produttrice Tanya Lapointe. È lì che si muovono, misteriose, Florence Pugh, Léa Seydoux e Charlotte Rampling.
Se in Dune Paul sembra un ragazzino promettente, schiacciato da premonizioni più grandi di lui, volto pulito verso il futuro, ora Paul diventa un personaggio più complesso e ambiguo. Che Chalamet porta discretamente sulle sue gambine esili: quanto basta convincente, a spanne dall’essere sommo.
«Tuo padre non credeva nella vendetta», lo pizzica la madre. Lui secco: «Io sì».
A tradimento, la sua gente è stata massacrata. Morte e devastazione sul suo pianeta Caladan, per mano degli Harkonnen. Suo padre Duca Leto Atreides è stato ucciso. Perché? Attenzione, spoiler: perché era troppo debole. Ecco, è quello che Paul non vuole essere. Una convinzione che matura pian piano e che si riflette nel suo tono di voce che si fa a un tratto minaccioso, nelle decisioni sempre più vigorose. Una maturazione narrativamente interessante.
È invece senza dubbi somma la rappresentazione di Chani fatta da Zendaya, personaggio a cui sono stati dati guizzi contemporanei, in autonomia di pensiero e visioni. «La profezia serve per dominarci», dice lei. In moti diffidenti, dolcezze e paure amorose, sguardi lividi da cuore ferito, sprizza carisma ed efficacia.
Su filo di un’ambiguità inquietante, che solleva il tasso di possibilità e intrighi, ci sono anche loro, indubbiamente, le Bene Gesserit. La mamma di Paul, in primis, e poi lei, la reverenda madre e veridica dell'imperatore (Charlotte Rampling), rassicurante come Una notte sul Monte Calvo di Musorgskij.
E cosa dire delle new entry? Da svettante Elvis Presley (in Elvis di Baz Luhrmann) a calvo e funesto Feyd-Rautha, nipote del barone Harkonnen: Austin Butler se la cava bene a spargere morte, anche se non entrerà nella teca dei migliori villain.
Serafica ma pregna dell’attesa di qualcosa di grande, Florence Pugh è una perfetta principessa Irulan, dal ruolo chiave nel gioco geopolitico dell’universo di Dune. In lei ci sono fierezza e durezza.
E Christopher Walken? Christopher Walken è Christopher Walken. Un imperatore dall’aura di gentiluomo, enigmatico, ma senza coscienza e alla deriva.
Léa Seydoux è Lady Margot Fenring, una sorella Bene Gesserit di presenza quasi spettrale, come un malaugurio nell’aria…
Mentre soprattutto gli uomini battagliano, sono eletti, imperatori, baroni, comandanti, dominatori e sterminatori, fecondatori di dinastie, eccole, le donne, nell’ombra, a gestire il mondo, a generare il futuro.
Come se tenesse le «redini» di un mastodontico verme delle sabbie, Denis Villeneuve guida con rigore. Cade qualche volta in strani tagli di montaggio (effettuato da Joe Walker, anche lui vincitore di un Oscar per il primo Dune), probabilmente in un difficile lavoro di cut sul lungo e vasto girato. Un esempio? Stilgar chiede a Paul Atreides di sottoporsi a una difficile prova di sopravvivenza nel deserto: la prova sembra iniziare, sì, ma poi… a un tratto è finita, dando per scontato che l’abbia ovviamente superata.
Villeneuve è un matematico del cinema: da Arrival (2016) a Blade Runner 2049 (2017) a Dune (2021), il suo cinema è di disciplina e controllo più che di sussulti e calore, con limitata eccezione per La donna che canta (Incendies) (2010). Non è un poeta che dà graffiate e tuffi emotivi, che osa colpi al cuore e all’epica narrativa, a scapito magari dell’errore. È il suo grande pregio. E in parte difetto.