Dunkirk: la guerra metafisica di Christopher Nolan – La recensione
Un film di guerra? Dura chiamarlo così. Perfino astruso. Eppure in Dunkirk, che va acclamato come il più bel film di Christopher Nolan (e finora dell’anno, uscita in sala il prossimo 31 agosto) nonostante i suoi stessi Interstellar e Cavalieri Oscuri, la guerra c’è, eccome.
Con i suoi 400 mila soldati inglesi e francesi inseguiti dalle fauci naziste del 1940, in piena débâcle militare, lungo l’infinita livida spiaggia di Dunkirk, che poi sarebbe Dunkerque.
Ma è una guerra metafisica, vista da tre angolazioni con relative distorsioni prospettico/temporali e altrettanti personaggi guida: mescolando in un unico contenitore narrativo una spaventosa settimana d’attese e di ecatombe sul molo, un’ora di battaglia aerea tra Raf e Lutwaffe, un giorno di traversata marina nella Manica.
Terra, Aria, Mare. Capitoli programmatici, coi loro personaggi, soldati piloti timonieri, mèntori e medium di un ragionamento cinematografico che dalla guerra parte ma là non si ferma: diramandosi in àmbiti complessi, remoti, forse siderali.
Tutti in fuga dal mostro d’acciaio
Dunkirk. Il capolavoro. Bella lezione. Di cinema. Di vita. Di civiltà. Di dignità.
Dispensata rovesciando la clessidra della Storia fino al 1940, con le armate della Wehrmacht che hanno appena messo all’angolo le truppe britanniche e alleate come un pugile sull’orlo del knock out. Centinaia di migliaia d’uomini smarriti e in ritirata dal mostro d’acciaio invisibile e inesorabile, magnetico come una divinità immortale che così, allora, pare ancora essere. Tutto in una settimana a cavallo tra maggio e giugno. Niente sole e cieli rotolanti di nuvole compatte che al grigio alternano lo stesso colore della sabbia, sicché il cielo e la terra e il mare che vive di riflessi paiono una cosa sola, simbolicamente e fatalmente.
Una distesa plumbea di teste e di elmetti
Quattrocentomila soldati in cerca della via di fuga che poi è una soltanto, la Manica. Passaggio privilegiato riservato agl’inglesi, a ciascuno le sue navi e quelle che attraccano al molo fin quando le bombe tedesche non lo sbranano sono, appunto, britanniche.
Una distesa plumbea di teste e di elmetti, un’aggregazione di corpi in posizione eretta, pazienti e rassegnati al medesimo istante. E chi s’imbarca, fosse anche su uno scafo con le insegne della Croce Rossa, non è sicuro di cavarsela e di arrivare alla mèta perché i caccia e i bombardieri nazisti non guardano, come si dice, in faccia nessuno. Giù bombe e colpi di mitraglia, navi affondate e uomini in mare, cadaveri sulla battigia in quella strana paradossale e febbrile partecipazione collettiva dove la vita pare non contare e la morte arriva nell’indifferenza. C’est la guerre.
Tre “soggettive” emotive e temporali
Ma Nolan, naturalmente, non si ferma a guardare. Cerca i suoi interpreti. E gli occhi coi quali vivere tutto questo, in soggettive personali, emotive e temporali.
Quelli del soldatino americano Tommy che ha il volto spaurito di Fionn Whitehead, il primo a comparire nel film e a raggiungere la spiaggia, quasi una guida, un battistrada che introduce il capitolo terrestre, Il Molo, una Settimana insieme con altri compagni d’armi come l’altrettanto sgomento Gibson (Aneurin Barnard); quelli di Dawson (Mark Rylance) che alla guida del suo yacht col figlio Peter (Tom Glynn-Carney) risponde con altre centinaia d’imbarcazioni private all’appello di Winston Churchill di attraversare la Manica per sostenere l’esodo prendendo a bordo militari nel segmento acquatico intitolato Il Mare, un Giorno; quelli dell’aviere Farrier (Tom Hardy), sfrecciante sul suo Spitfire ad assaltare gli Stuka e un cacciabombardiere della Lutwaffe per coprire la ritirata delle truppe in L’Aria, un’Ora prima di finire il carburante e planare esausto a motore spento sulla spiaggia: stravagante ovattata discesa che nella memoria rimbalza su quella di William Hurt e Solveig Dommartin nel deserto australiano di Fino alla fine del mondo (1991)di Wim Wenders, l’elica immota e l’incredibile Blood of Eden di Peter Gabriel sui fondali sonori.
Blocco armonico tra spasmi di paura e di morte
Qua, però, la musica è diversa. Né canzoni né popstar. C’è un unico blocco armonico, incessante come un basso continuo, sferragliante e sinistro nel tictac ritmico di un orologio gigantesco, occulto e spirituale, rimbombante e cupo fra clangori metallici e viscidi rovesci di gasolio, sospensioni di bombe a tempo tra affanni e trepidazioni pulsanti di sopravvivenza e spasmi di paura e di morte. Nel magma del suono, escogitato dal gigantesco Hans Zimmer, si raccolgono le storie convergenti delle figure simboliche del film, inclusa quella del meraviglioso, ancestrale e consapevole Comandante Bolton (Kenneth Branagh), i loro punti di vista e angoli di prospettiva: gli stessi eventi vissuti in momenti e da angolazioni diverse in una sofisticatissima stratificazione temporale vissuta dai passeggeri di un misterioso affascinante gioco d’intervalli.
L’azione trasformata in sensazione e sovrapposizione
D’altra parte Nolan è uno che col tempo ci sa fare. Lavora sul montaggio (qua firmato da Lee Smith, lo stesso della trilogia Batman, Interstellar e Spectre) come pochi, trasforma l’azione in sensazione e sovrapposizione, sicché il racconto, nonostante gli scoppi e le secche mitraglie crepitanti, più che esplosivo tende a diventare implosivo e a richiamare le materia bellica in un grande divorante buco nero.
Immagine d’una guerra trascendentale, consumata su una spiaggia invasa della mucillagine giallognola e scivolosa, gelatinosa e molliccia. En attendant la fuga, il ritorno a casa o, chissà, un’altra dimora nel mondo nuovo che l’aggiornamento corale, disperato e forse allegorico nella rappresentazione iconica di quelle truppe in attesa non può che rimandare alla disperazione migratoria dell’oggi.
Gli eroi sconosciuti che hanno fatto la Storia
Così realistico, così aereo. E così poetico e a tratti commovente, come nell’impeto generoso, patriottico e protettivo che spinge alla traversata chiunque abbia barche, barchette e panfili a soccorrere i transfughi per riportarli sulla costa inglese; o come nei tanti piccoli eroi sconosciuti che a loro modo hanno fatto la Storia, non si sa se sempre perdenti o sempre vincitori.
Anche loro, come i militi sparsi a perdita d’occhio e i molti eccellenti attori impiegati nell’intrapresa, parte di una macchina perfetta, che tradotto in linguaggio artistico vuol dire capolavoro: cioè spettacolo sontuoso allo stato puro e allo stesso tempo intimo e carico di riverberi prismatici.
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