Musica
September 09 2023
A venticinque anni dalla morte e nell’anno in cui avrebbe compiuto gli ottanta, Donato Zoppo, uno dei più attivi studiosi della figura di Lucio Battisti, dedica il suo ultimo libro (Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale, Compagna Editoriale Aliberti), all'album più misterioso dell'intera discografia del cantautore, E già, un disco di rottura rispetto al passato, completamente "elettronico" il primo dopo la separazione da Mogol, pubblicato il 14 settembre 1982. Nei brani di E già Lucio canta in prima persona i testi scritti dalla persona a lui più vicina: Grazia Letizia Veronese. Sua moglie.
«E già, il disco più misterioso, enigmatico, dimenticato, probabilmente anche rimosso, di Lucio Battisti» scrive per Panorama.it Donato Zoppo. «È anche il primo e unico album autobiografico, nel quale il grande artista si racconta, mettendo a nudo una parte del suo percorso umano e artistico, quello di rinascita all’indomani della separazione da Mogol. Infine, è il primo album pop italiano ad essere stato registrato esclusivamente con strumenti elettronici. Tutto ciò lo rende estremamente seducente agli occhi di qualsiasi giornalista, figuriamoci a quelli di uno studioso. Nel corso degli anni ho narrato approfonditamente Lucio Battisti, l’ho fatto in cinque libri, in speciali radiofonici e televisivi, in storytelling elettrici e acustici, e avevo voglia di soffermarmi su un capitolo oscuro, tanto ombroso perché poco raccontato quanto luminoso perché incentrato su una rigenerazione. L’album del 1982 fu una vera e propria ripartenza, con il fascino del disco incompiuto, non completamente messo a fuoco, privo di grandi pezzi e anche dei testi di Mogol. Mi affascinava l’idea di questo “family album” elettronico, nel quale Lucio, Grazia e il figlio condivisero una visione: il windsurf, i vecchi amori musicali, la ricerca di una dimensione anche spirituale più raccolta, tutto ciò alimentò le dodici canzoni all’insegna di un synth-pop oggi assai invecchiato ma all’epoca d’avanguardia. Questi i motivi che mi hanno spinto a riascoltare e studiare E già».
Un estratto dal libro
Lucio corre, studia, legge, ascolta, immagina, sperimenta, progetta. Sfida Adriano Pappalardo sul lago, carica la macchina di tastiere, si ferma dal cugino elettrauto, incontra Dario Salvatori da Musicarte, entra negli schemi del Fairlight con Dario Massari che gli impartisce lezioni di elettronica, comunica alla sua Grazia pensieri, tracciati, prospettive. Lucio bionico, altro che posapiano. «È una vela la mia mente», cantava in Due Mondi, «vento, magica corrente». Il windsurf e la barca hanno allargato il suo pensiero, il mare gli ha trasmesso un’idea di rinascita, di ciclicità, le lezioni di synth hanno sostenuto la magica corrente consolidando il suo desiderio di autonomia. A Lucio non manca niente per la propria musica all’indomani dell’allontanamento da Mogol. Mancherebbero i testi, ma il Lucio autarchico del 1982 si dà le proprie regole, agisce nell’area della consapevolezza: le parole le scrive da sé. Perché tutto, in modo particolare la scoperta della possibilità monotonale di cui parlerà nell’imminente album, conduce a una benefica sensazione di potenza artistica. Stavolta non sono necessari altri musicisti, i nuovi strumenti gli permettono di concentrare tutto in un’unica postazione, anche mentale, anche interiore. Cosa c’è di meglio di una autobiografia? Una volta per tutte, intende raccontarsi.
Come il Paul McCartney del 1970, che affidò alla musica la narrazione del travaglio post Beatles, il Lucio del 1982 ha piena fiducia nei propri mezzi, ha avuto tutto il tempo per metabolizzare la separazione da Mogol ed è pronto. Forse è pronto anche a ricevere un parere sprezzante come quello di Greil Marcus, il decano dei giornalisti americani che all’ascolto di Self Portrait di Bob Dylan sbottò: «Cos’è questa merda?». L’autoritratto di Dylan non era un modo per raccontarsi, ma un tentativo di distruggere il mito e respingere i fan. Lucio ha chiara la motivazione insofferente del maestro ma preferisce che la musica sia al di sopra di queste provocazioni. Come affermò nel 1971: «Io dico sempre che è meglio non vendere un disco bello che non vendere un disco brutto. Almeno hai fatto una cosa buona».