L'Egitto tra le elezioni ed il sangue

Il sogno è lo stesso per tanti giovani: andarsene via dall’Egitto. I ragazzi che erano scesi in piazza nel 2011, quando tutto sembrava possibile, non riconoscono più la loro rivoluzione. Sono cambiati i simboli della rivolta, non più piazza Tahrir, ma le moschee di Raba’a El Adaweya e El Fatah. Nelle strade del Cairo non c’è più posto per loro.

Qualcuno aveva capito che sarebbe finita così e aveva già fatto le valigie da tempo, destinazione Europa e Stati Uniti. Quelli che sono rimasti in Egitto sfogano la loro rabbia e frustrazione sui social network, perché schierarsi ora è troppo difficile. “Benvenuti in Ruanda” scrive Asmaa su Facebook, dopo aver letto la notizia che centinaia di militanti dei Fratelli Musulmani sono stati uccisi. Sotto  c’è un’immagine che raffigura Morsi, il generale Al Sisi e Mubarak con il volto sporco di sangue e una frase chiara: “Sono tutti assassini”.

Non è facile essere razionali in un Paese spaccato in due, dove basta denunciare le brutalità dell’esercito per essere considerati dei sostenitori di Morsi. Bisogna conservare la pietà, come fa Osama, che non ha mai amato i Fratelli Musulmani, anche perché omosessuale e ateo, ma non per questo riesce ad accettare quanto sta facendo l’esercito. “Non riesco a capire come questa repressione possa essere portata avanti con il consenso di buona parte della popolazione” spiega “Dopo di loro toccherà a noi. Un regime militare non tollera il dissenso da qualsiasi parte arrivi”.

C’è anche chi sostiene i militari e giustifica le loro azioni, linkando alcuni video che mostrano i militanti dei Fratelli Musulmani armati, che attaccano l’esercito, che organizzano dei campi di tortura o che bruciano le chiese. Qualcuno dice che sono terroristi, che bisogna usare la forza, che sono pericolosi, che il loro scopo è sempre stato quello di creare uno Stato islamico, incompatibile con una democrazia completa.

C’è chi condivide queste idee, ma c’è chi ha paura del sottofondo di applausi che accompagna le operazioni dell’esercito contro i Fratelli Musulmani, anche quelle più violente e sanguinose. “Mi sono sempre chiesto come il massacro di piazza Tienanmen sia potuto succedere” scrive Tarik, un ingegnere che ha partecipato a molte delle proteste di questi anni, “quello che pensavo di vedere solo su National  Geographic  è successo a 10 chilometri da casa mia, approvato e sostenuto dalla popolazione.”

È un Egitto senza pace e privo di speranze quello di questi giorni. Una nazione divisa, convinta che gli avvenimenti peggiori debbano ancora succedere e che l’aumento della violenza politica e del terrorismo saranno sfruttati dall’esercito per assumere ancora più potere. All’orizzonte ci sono le elezioni, che potrebbero svolgersi escludendo  la partecipazione dei gruppi religiosi. Un esclusione dalla competizione politica che finirebbe per  convincere diversi  islamisti scegliere la strada della violenza.

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