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January 25 2017
Il rapimento di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano trovato cadavere il 3 febbraio in un fosso alla periferia del Cairo con segni di scosse elettriche, percosse, ferite sul corpo e unghie dei piedi strappate, avveniva oggi, esattamente un anno fa. Dopo un anno di depistaggi, tra accuse e sospetti lungo l'asse Roma-Il Cairo, la verità è quella che in molti, all'indomani del ritrovamento del corpo, avevano ipotizzato.
Il ricercatore è stato venduto agli apparati di sicurezza egiziana - o a qualche suo pezzo deviato - dal capo del sindacato degli ambulanti Mohammed Abdallah, conosciuto dallo stesso Regeni nell'ambito della sua attività di ricerca sui sindacati indipendenti egiziani. «Sì, ho denunciato Regeni, ogni buon egiziano l’avrebbe fatto» aveva detto infine Abdallah all'Huffington Post a fine dicembre 2016. Una confessione cui si è aggiunta in questi giorni una inequivocabile registrazione video, realizzata attraverso una microspia che era stato nascosta sul corpo di Abdallah dalla National Security Agency egiziana, che risale al gennaio 2016. «Qui ho finito di registrare, venitemi a togliere l’apparecchiatura», si sente dire dall’ex capo del sindacato degli ambulanti, in coda al filmato in cui discute con Regeni. Parole come pietre che inchiodano un pezzo dei servizi egiziani.
Nel verbale d’interrogatorio reso alla Procura generale della Repubblica araba, che non senza resistenze e tira e molla potrebbe essere consegnato agli investigatori romani guidati da Pignatone, l’ex leader degli ambulanti ha raccontato quella giornata che sarebbe risultata fatale per il ricercatore. Emerge, in modo chiaro, il ruolo del capitano della Nsa che teneva i rapporti con il sindacalista corrotto. Fu un tecnico della polizia, inviato dal capitano, a mettere la microspia addosso ad Abdallah, secondo la testimonianza resa dal sindacalista agli investigatori egiziani: una micro-camera camuffata da un bottone, ma anche anche una scheda simile a quelle telefoniche, che il sindacalista - su imbeccata della polizia segreta - mise in tasca per migliorare la qualità della registrazione prima di incontrare Giulio.
Dubbi sulla responsabilità del capitano della Nsa non ve ne sarebbero più. Pure il capitano è stato ascoltato al Cairo. Ha negato qualsiasi attività sul conto di Giulio dopo il 7 gennaio. Ma a inchiodarlo ci sono le testimonianze di Abdallah che afferma di averlo chiamato l’ultima volta il 23 gennaio. Aveva ricevuto istruzione di avvertire se Regeni lo avesse nuovamente cercato. Quel giorno Giulio gli telefonò per chiedergli un appuntamento con un giornalista egiziano free lance. Lui organizzò l’incontro per il 26. Il 25 gennaio il ricercatore friulano venne rapito, poi torturato e ucciso. Fu ritrovato il 3 febbraio in un fosso lungo l'austostrada tra Il Cairo e Alessandria. Il corpo era in condizioni terribili.
Rimane da capire ora soltanto tutta la catena delle responsabilità, se sia stata un'iniziativa personale del capitano dei servizi - e dei sette poliziotti mandanti di Abdallah - o le collusioni e le complicità portino ancora più in alto.
Che l'omicidio potesse essere maturato all'interno dei servizi di sicurezza del Cairo, ancor prima della confessione del sindacalista, lo aveva lasciato intendere del resto Maurizio Massari, ambasciatore italiano in Egitto, quando disse che «l'omicidio va ricondotto a dinamiche interne egiziane». Rimane da capire, però, al di là delle apparentemente inequivocabii responsabilità del capitano e dei sette poliziotti, se si sia trattato di un complotto per colpire Al Sisi o se sia stato un «omicidio politico con le impronte digitali del regime» -con responsabilità che portano in alto -come hanno subito dichiarato le intelligence britanniche e statunitensi. Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco - i capi della parte italiana dell'inchiesta - vogliono vederci chiaro. E hanno già chiesto agli investigatori egiziani una rogatoria per interrogare i sospetti.
1) COMPLOTTO CONTRO AL SISI
È l'ipotesi su cuiha lavorato la squadra di investigatori italiani (sette uomini di Polizia, Carabinieri e Interpol) inviati da Roma in Egitto all'indomani del ritrovamento dei corpo del ragazzo. Questa ipotesi - fondata subito sull'idea che a uccidere il ragazzo sia stato qualche «apparato deviato» dei servizi egiziani - sarebbe stata inizialmente avvalorata, non da circostanze fattuali, ma da una supposizione logica: se il corpo del ragazzo non è stato fatto sparire, come sono soliti fare gli agenti segreti, ma è stato fatto ritrovare sul ciglio di una strada, significa che qualcuno - all'interno dei servizi - voleva colpire Al Sisi, gettare una luce sinistra sul suo regime, addossargli la colpa, al fine - forse - di far saltare l'accordo appena siglato tra l'Eni e l'Egitto per lo sfruttamento del giacimento di gas di Zhor, il più grande di tutto il Paese.
Il corpo straziato di Giulio - che era anche un collaboratore de Il Manifesto - sarebbe un mezzo, da questo punto di vista, per mettere in difficoltà il generale Al Sisi e la politica di avvicinamento tra Roma e il Cairo. È un'ipotesi, questa, che non può essere esclusa: l'Egitto ha uno degli eserciti e apparati militari più corrotti e potenti dell'area. Le guerre intestine alle intelligence del Paese erano moneta corrente quando c'era Mubarak, lo sono ancor di più oggi che è in corso una strisciante guerra civile nel Paese e negli apparati dello Stato, sospettabili - come in Italia negli anni 70 - di slealtà e doppiogiochismo.
2) LE IMPRONTE DIGITALI DEL REGIME SUL CORPO DI REGENI
È l'ipotesi avvalorata dalle intelligence di Stati Uniti e Inghilterra. Secondo alcune fonti dei servizi di Londra e Washington l'omicidio Regeni è opera dei servizi di sicurezza egiziani desiderosi di colpire quelle istituzioni universitarie aglofone, quei think tank o quelle organizzazioni non governative con cui lavorava e collaborava Regeni che sono da sempre considerate dai «paranoici» servizi segreti mediorientali come una fucina di spie e informatori dei Paesi occidentali. Il fatto che Regeni stesse studiando l'azione dei «sindacati indipendenti egiziani» per Il Manifesto e per altre testate impegnate, o il fatto che il ricercatore avesse inviato i suoi report e le sue osservazioni anche al suo tutor presso la Cambridge University, la professoressa Maha Abdelrahman, potrebbero averlo reso un obiettivo sensibile agli occhi di qualche spione degli apparati di sicurezza egiziani. Regeni, che per altro aveva lavorato dal 2013 al 2014 come consulente per la Oxford Analytica, una compagnia specializzata in analisi globale per multinazionali, istituti finanziari e governi, era diventato secondo questa ipotesi per il suo attivismo e il suo impegno universitario una spia occidentale che doveva essere eliminata. Il suo corpo straziato, da questo punto di vista, sarebbe un messaggio inviato a Londra, Roma e Washington: l'Egitto è cosa nostra.
Che le università e i think tank siano infiltrati anche da professori e ricercatori che - più o meno consapevolmente - passano informazioni a uomini delle intelligence occidentali non è solo un'astruseria paranoica del regime egiziano
Nemmeno questa ipotesi può essere esclusa: che le università e i think tank occidentali siano infiltrati, specie nei Paesi chiave dello scacchiere mediorientale, anche da professori e ricercatori che - più o meno consapevolmente - passano informazioni a uomini delle intelligence occidentali non è solo un'astruseria paranoica del regime egiziano.
È un'ipotesi che spiegherebbe la genesi dell'omicidio del ragazzo, che magari, per il suo scambio epistolare e elettronico con altri professori universitari o per i suoi contatti con gli attivisti sindacali egiziani, è entrato inconsavolmente in contatto con qualche informatore dietro una cattedra o in tuta blu che informava gli apparati di sicurezza egiziani. In sostanza, Regeni sarebbe stato scambiato per una spia e perciò ucciso.
L'IPOTESI DELL'ERRORE
Entrambe queste ipotesi non escludono nemmeno, anzi la rafforzano, l'ipotesi dell'errore. Anzi, in un caso come nell'altro, la possibilità che gli apparati di sicurezza egiziani (deviati o leali) abbiano potuto agire sulla base di una soffiata o di un'informazione sbagliata è altamente probabile. Gli egiziani potrebbero avere però fatto male a fare i loro calcoli. Hanno scambiato per una spia un uomo che era semplicemente un ricercatore e un'attivista. Ora la palla passa agli italiani, al governo di Roma, chiamato a pretendere chiarezza non in nome del business, ma in nome della trasparenza tra Paesi alleati. Non è sfuggito a nessuno che la notizia del ritrovamento del corpo del ragazzo sia giunta in coincidenza con l'arrivo al Cairo del ministro dello Sviluppo economico italiano, Federica Guidi, pronta con una delegazione di imprenditori italiana a siglare una serie di accordi economici di cooperazione con l'Egitto.
È stato solo un caso? O qualcuno, come sospettano gli investigatori italiani, voleva far saltare il banco per detronizzare Al Sisi? Di certo, in tutto questo, c'è solo il corpo martoriato di Regeni, finito in un giro più grande di lui, vittime di una guerra che ogni settimana, senza che nessuno in Italia alzi la voce, porta alla sparizione di decine di attivisti e giornalisti invisi a qualcuno che conta nel nuovo ma vecchissimo Egitto del generalissimo Al Sisi.