Elezioni Europee, il boom del nome e del «detta»... che personalizza la politica

Dopo il caso della segretaria del partito democratico Elly Schlein, è stata la Presidente del consiglio Giorgia Meloni a chiedere ai suoi elettori di vergare direttamente il proprio nome sulla scheda elettorale. E a seguirla i principali leader degli altri partiti fino all'ultimo dei candidati, ad eccezione di Giuseppe Conte. Tutti a puntare sul proprio nome se non addirittura il nomignolo. Si tratta, in realtà, di un vecchio tema dalle radici lontane, ben oltre Berlusconi, con l’esempio forse più noto alle cronache quello di Giacinto Pannella detto “Marco”. Dunque soprannomi, pseudonimi, versioni fantasiose di nomi comuni apparentemente avulsi dal tradizionale contesto nominale, ammantano la vita di molti candidati al cospetto delle urne, quasi a voler focalizzare, oltre modo, l’attenzione degli elettori.

Il profilo normativo

La pratica di scegliere una candidata o un candidato indicando il soprannome, lo pseudonimo o anche il nome con cui più sono conosciuti nella vita pubblica, dunque, è parte della prassi del processo elettorale italiano che riceve, contestualmente, riconoscimento anche normativo, a voler dar credito ad una sentenza del Consiglio di Stato datata 2007 che precisa la possibilità di utilizzare anche soltanto il “nome proprio” a patto che l’elettorato sia preventivamente venuto a conoscenza di tale possibilità mediante l’indicazione di nome o soprannome sui manifesti elettorali. Nello specifico per la competizione al Parlamento europeo si fa espresso riferimento all’art. 69 del T.U. per l’elezione alla Camera dei deputati, a tenore del quale “la validità dei voti nella scheda deve essere ammessa ogni qualvolta possa desumersi la volontà effettiva dell’elettore”. La norma mira, in pratica, a tutelare il c.d. “favor voti”, cioè la volontà dell’elettore, considerando del tutto valide quelle schede da cui emerga la chiarezza nella manifestazione del voto nonostante il nome non sia stato espresso nella sua completezza.

Professore Raniolo, la politica di questi tempi vive di profonde personalizzazioni, pare di capire…

«Si, ma c’è di più. La “personalizzazione” è un ingrediente atavico della politica. Come ricordava Norberto Bobbio, richiamando Platone che, ne “Il Politico”, poneva la distinzione tra “governo degli uomini” e “governo delle leggi”, optando per il primo. Tale tema è centrale nelle teorie elitiste, da Machiavelli a Miglio, passando per Gaetano Mosca, l’esponente più significativo di tale linea di pensiero. Lo studioso palermitano, grande fustigatore dei vizi del regime parlamentare, aggiungeva che nelle elezioni (a suffragio limitato) non era l’elettore che sceglieva il candidato, ma questo che si faceva scegliere. Aspetti che ritornano nel dibattito odierno».

Innanzitutto chiariamo il concetto di “personalizzazione della politica”.

«La “personalizzazione della politica” si sviluppa in condizione di due circostanze: la crisi o declino delle identità collettive, a partire del ruolo dei partiti di massa, e le trasformazioni della comunicazione politica, con il passaggio all’età della televisione e poi delle piattaforme digitali. Tali elementi, declino dei partiti, mediatizzazione della politica e ora la sua digitalizzazione, ma aggiungerei anche sistemi elettorali uninominali e istituzionali verticali (pensiamo al premierato in salsa italica), sono tra le spinte propulsive della personalizzazione».

Abbiamo a che fare con un connotato irreversibile della lotta politica: i fenomeni politici si focalizzano su attori individuali a scapito di quelli collettivi, ovvero i partiti…

«Come aveva mostrato in maniera insuperabile Giacomo Sani (emerito di scienza politica alla Ohio State University fino al 2010, nda) le scelte elettori sono sempre meno condizionate da fattori strutturali. Le profonde trasformazioni che vengono fatte risalire alla “modernizzazione riflessiva” hanno favorito il declino delle sub-culture politiche e dei partiti di integrazione. Ma anche delle “identificazioni d’area”, comunque più resilienti, per cui l’elettore tende a muoversi dentro il perimetro di sinistra, centro o destra indipendentemente dall’offerta che vi trova. Il M5S, però, ha rotto tali barriere cognitive e ideologiche catturando un elettorato trasversale».

Fenomeno non certo italiano…

«Non solo in Italia, il voto di appartenenza oggi ha perso appeal. Per contro, i fattori congiunturali hanno preso il sopravvento, come l’importanza dei temi sul tappeto (issues) e del clima d’opinione (scandali, attentati, crisi economiche, guerre).

Sul tema ha un peso l’immagine dei candidati.

«Un fenomeno non nuovo, basti pensare al voto di preferenza, che Percy Allum (prestigioso politolo inglese scomparso nel 2022, nda) chiamava “voto ad personam”. Tanto più rilevante nel Mezzogiorno dove le identità collettive hanno trovato ostacoli strutturali e culturali. Oggi, invece, ci interessa l’identificazione “im-mediata” con i leader, visti non più come simboli di un partito o ideologia, ma come surrogati totalizzanti. In un articolo di qualche anno fa su Forza Italia ho proposto di distinguere tra “partiti con leader” e “leader con partito”.

La personalizzazione induce quindi i cittadini a partecipare in modo relativamente svincolato dalle appartenenze ideologiche o addirittura partitiche. Ritorniamo a chiederci cosa sia la personalizzazione

«In generale, per personalizzazione possiamo intendere lo spostamento di rilevanza da una soggettività collettiva a una individuale, secondo tre livelli. A livello di campagna elettorale assistiamo alla individualizzazione della scelta degli elettori che adesso passa esclusivamente attraverso l’immagine dei leader; a livello dei partiti ciò porta alla loro leaderizzazione, vale a dire alla centralizzazione delle decisioni e l’indebolimento dei sistemi interni di controllo; infine, a livello istituzionale, alla presidenzializzazione dei sistemi di governi caratterizzati dall’espansione del ruolo di indirizzo e di legittimazione del capo del governo o presidente, del declino del Parlamento e dei meccanismi di accountability: opposizioni, istituzioni di garanzia, corti costituzionali».

Focalizzando tutta l’attenzione sul singolo leader si tende, però, sempre più a conferire centralità alla vita privata di politici …

«Nel momento in cui le identificazioni degli elettori hanno come oggetto di riferimento la figura del leader al di là di qualunque vernice ideologica o di identità collettiva, gli aspetti privati, intimi, finanche la loro corporeità diventano cruciali, con la conseguenza che il rapporto tra leader e follower diventa assorbente. La comunicazione mediale della politica ha spinto al parossismo tali aspetti emotivi: con i social media, nei quali funzionalmente “il privato è diventato pubblico”, sono gli stessi leader, o meglio i loro social manager, che utilizzano strategicamente il privato come elemento di identificazione».

Ne abbiamo contezza dalle ultime campagne elettorali americane…

«Esatto, con una forma evolutiva caratterizzata da diversi aspetti critici: lo sviluppo di campagne negative e aggressive, dove si scava nella vita dei candidati per trovare scheletri (la competizione tra Trump e la Clinton e poi tra Trump e Biden sono esempi eloquenti), la trivializzazione dei messaggi (la politica dei post), la frammentazione e polarizzazione dei pubblici (gli hate speech)».

Siamo praticamente tornati al modello dei “leader carismatici” nella politica!

«Il concetto di carisma che Max Weber all’inizio del XX secolo riprende dall’esperienza religiosa è, forse, impegnativo. Si è molto discusso se questo o quel leader -si pensi caso di Berlusconi- sia più o meno carismatico e ci si dimentica che il concetto weberiano era un modello, un “ideal-tipo, utile per indagare la realtà. Sovente, poi, il carisma odierno è costruito dai media, dal marketing elettorale, dai consulenti di immagine. È una creazione dall’alto, più che un riconoscimento dal basso, più imposto che proposto. Resta il fatto che l’affermazione di tali leader riflette l’esistenza di crisi sociali, di situazioni di incertezza radicale, l’esplosione di angosce individuali e collettive. Un tratto, quello situazionale, che troviamo negli sviluppi del populismo vecchio e nuovo, insieme alla centralità di quello che è stato chiamato “l’iper-leader”».

La creazione del consenso passa, quindi, attraverso un'accurata costruzione d'immagine, ripresa dai mass media e dai social. E’ la strada verso il successo…

«La personalizzazione in politica gioca su due leve utili alla mobilitazione, non solo elettorale. La prima è la promessa del “direttismo”: il leader, cioè, diventa accessibile senza filtri di apparati, chierici o intermediari. La partecipazione, come dico nel mio ultimo saggio, sembra significativa, efficace, generatrice di effetti. Ci dice che c’è qualcuno al quale affidarci e sul quale confidiamo. Come in quel ritornello: “Meno male che Silvio c’è…”; o nella rottamazione di Renzi del gruppo dirigente del Pd, che Ilvo Diamanti chiamava PdR (Partito di Renzi)».

E la seconda?

«E’ la promessa di “identità”: il leder è uno di noi, è uguale a noi. Simile tra simili. “Io sono Giorgia, io sono una donna…” diventa “io sono una di voi, come voi e per voi”. Il cognome, a questo punto, è superfluo. Il bisogno di identificazione è soddisfatto. Aspetto, questo, che il filosofo argentino Ernesto Laclau coglieva nel populismo».

Personalizzazione, leaderismo, marketing politico. E la democrazia?

«In democrazia governo “del popolo” e “per il popolo” convivono non senza tensioni. Oggi sono molteplici i segnali e i rischi. Anzi tutto, la vulnerabilità dei leader: la storia italiana recente, da Renzi in poi, ci racconta del vertiginoso succedersi di leader che produce effetti di instabilità del quadro politico. In secondo luogo, le democrazie leaderistiche hanno una spinta interna che mira ad erodere “pesi e contrappesi”, garanzia istituzionali e diritti. Sono le democrazie illiberali. In terzo luogo, il plebiscitarismo rischia di erigere delle barriere tra i soggetti della partecipazione democratica: partiti, gruppi e associazioni, movimenti e comitati civici, social e piattaforme. Carenza di empatia e di dialogo riducono la capacità di rispondere alle domande dei cittadini e di percorre le vie dell’innovazione democratica»

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Francesco Raniolo è ordinario di Scienza politica e Politica comparata nel Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria, di cui è stato anche direttore. Tra le sue pubblicazioni più recenti “La partecipazione politica” (Il Mulino 2024) e con Leonardo Morlino “Disuguaglianza e Democrazia” (Mondadori 2023) e “Come la crisi economica cambia la democrazia” (il Mulino 2018).

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