Dal Mondo
January 12 2024
Sono elezioni presidenziali cruciali quelle che si terranno a Taiwan il 13 gennaio. Al momento, è in vantaggio il vicepresidente Lai Ching-te, che è esponente del Partito progressista democratico. Una posizione di forza, la sua, dettata (anche) dalla mancata candidatura unitaria dei principali schieramenti di opposizione, che corrono separatamente: da una parte c’è il Kuomintang, rappresentato da Hou Yu-ih; dall’altra, c’è il Partito popolare di Taiwan, che ha il suo candidato in Ko Wen-je.
Al di là delle questioni di politica interna, queste elezioni risultano fondamentali sul piano dei rapporti internazionali. Il Partito progressista democratico è un noto fautore della linea severa nei confronti di Pechino, laddove il Kuomintang è favorevole a una distensione con il Dragone. Non a caso, nel corso della campagna elettorale, Hou Yu-ih ha accusato Lai Ching-te di voler rinfocolare le tensioni, proclamando l’indipendenza formale di Taipei. Dal canto suo, l’attuale vicepresidente ha tacciato il suo principale rivale di essere filocinese.
Date queste premesse, è ovvio che la tornata elettorale taiwanese è stata messa sotto i riflettori sia da parte di Washington che di Pechino. Non solo. Il Partito comunista cinese ha anche effettato delle vere e proprie pressioni sull’isola negli scorsi giorni. Il ministero della Difesa di Taipei ha recentemente rilevato dei palloni aerostatici di Pechino nel proprio spazio aereo. Inoltre, nel suo discorso di fine anno, Xi Jinping ha affermato la Cina “sarà sicuramente riunificata”. “Tutti i cinesi su entrambe le sponde dello Stretto di Taiwan dovrebbero essere legati da un obiettivo comune e condividere la gloria del rinnovamento della nazione cinese”, ha proseguito. Parole che nascondono una neppur troppo velata minaccia. Non dimentichiamo infine che, soprattutto a partire dall’estate del 2022, la pressione militare cinese sull’isola è notevolmente aumentata.
Pechino rivendica del resto la sovranità su Taiwan, nonostante tale posizione non risulti esattamente in linea con il diritto internazionale. Taipei non ha infatti mai riconosciuto né è mai stata sotto il controllo della Repubblica popolare cinese, istituita da Mao Zedong nel 1949. La stessa risoluzione Onu del 1971, che attribuì il seggio al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite alla Repubblica popolare, non conferisce a quest’ultima alcuna autorità sull’isola: un elemento, questo, riconosciuto anche dall’allora primo ministro cinese, Zhou Enlai.
Se la Cina guarda con simpatia al Kuomintang, è evidente che Washington spera in una vittoria del Partito progressista democratico. Il problema è che, con la sua posizione ondivaga sui rapporti con Pechino, l’amministrazione Biden ha azzoppato la capacità di deterrenza americana nei confronti del Dragone. Da quando è presidente, per almeno quattro volte Biden ha promesso di difendere Taiwan in caso di invasione cinese. E tutte e quattro le volte è stato smentito dal suo stesso staff, che ha ribadito la tradizionale posizione americana dell’ambiguità strategica.
Il nodo vero risiede nel fatto che un’eventuale vittoria del Kuomintang rafforzerebbe l’influenza cinese in Estremo oriente, indebolendo l’Occidente. Qualora dovesse invece vincere il Partito progressista democratico, si tratterebbe del terzo schiaffo subito da Pechino nell'arco di poche settimane, dopo l’addio dell’Italia alla Nuova via della seta e lo stop dell’Argentina all’ingresso nei Brics.