Economia
February 23 2018
È normale che al termine di oltre un decennio di agevolazioni e aiuti pubblici concessi a un’azienda per tutelarne l’occupazione, i suoi operai e i impiegati diminuiscano di quasi il 40 per cento e i dirigenti invece diventino tre volte tanto? È quel che è successo alla Embraco di Riva di Chieri, come si può ricavare dalla scheda sul Piano di reindustrializzazione dello stabilimento pubblicata a novembre scorso dalla Regione Piemonte.
Ed è una cosa che fa riflettere, perché l’indignazione di questi giorni per la sua delocalizzazione in Slovacchia ha acceso i riflettori soprattutto sulla presunta concorrenza sleale di quel paese nei nostri confronti (con l’inevitabile corredo di recriminazioni sui rapporti fra partner europei). Ma non sarebbe male occuparsi anche del versante italiano di questa vicenda. Che si può riassumere, schematicamente, nella domanda: i milioni di euro pubblici per sostenere la Embraco, che ora clamorosamente “sbraca”, sono stati spesi bene?
La faccenda è delicata e complessa, coinvolgendo non solo il tema teorico generale dell’efficacia degli ammortizzatori sociali con cui si affrontano le crisi aziendali, ma anche il destino reale e concreto di centinaia di lavoratori in carne ed ossa. Per affrontarla è bene partire dai fatti. E il primo fatto da considerare è che la crisi della Embraco non è scoppiata adesso, ma dura da quasi 15 anni. Era il 2004 quando l’azienda dichiarò l’intenzione di chiudere gli impianti di Riva di Chieri e mandare a casa più di 800 persone.
Per difendere i loro posti di lavoro la politica si mobilitò sia a livello locale che nazionale. Il 5 agosto 2005 fu firmato un accordo di programma che prevedeva l’acquisto di aree dismesse dalla Embraco da parte della finanziaria regionale Finpiemonte al prezzo, certamente non modico, di 7,1 milioni più iva. Altri soldi furono spesi per ristrutturare l’immobile che vi si trovava e metterlo a disposizione di altre imprese (e in parte della stessa Embraco, in comodato d’uso gratuito) in vista della reindustrializzazione dell’area.
L’azienda dal canto suo ha investito 7,6 milioni per aumentare la capacità produttiva da 1,7 a 2,3 milioni di pezzi l’anno, ma questo non è stato sufficiente a tirarla fuori dalla crisi che ha dato il via alla trafila degli ammortizzatori sociali: prima la solidarietà, poi la cassa integrazione, poi ancora la solidarietà, in un andirivieni quasi senza interruzione fino al novembre 2017, quando l’azienda ha dichiarato di dover rinunciare all’ultima agevolazione in quanto la produzione programmata per i mesi successivi comportava un numero di ore di lavoro inferiore a quanto previsto dalla legge.
È stato l’annuncio ufficiale del cambio di rotta, divenuto incandescente nei giorni scorsi con le trattative interrotte fra l’azienda e il ministro Calenda.
Calcolare quanti soldi pubblici siano stati spesi complessivamente per tenere a galla la Embraco in tutti questi anni è un’operazione impossibile (si tratta comunque di parecchi milioni) anche per l’intreccio inestricabile fra risorse dell’Inps, dello Stato e dei lavoratori che confluiscono negli ammortizzatori sociali. Chiedere ragione del loro uso tuttavia è più che giusto, sacrosanto, specie nel momento in cui l’azienda dichiara fallito il tentativo di salvataggio per levare le tende e trasferirsi in un altro paese.
Gli stessi sindacati avvertono che ci si muove su un terreno minato, perché la libertà di impresa è un valore (giustamente) irrinunciabile e se si pongono vincoli troppo stretti c’è il rischio che le aziende preferiscano rinunciare agli ammortizzatori sociali, licenziando direttamente i lavoratori e lasciandoli senza alcuna protezione. Giusto. Ma se un’impresa riceve per anni aiuti pubblici (in qualunque forma erogati) con cui non riesce a cavarsi dalla crisi è inevitabile chiedersi se quelle risorse potessero essere spese con maggior profitto per l’occupazione e per il paese.
Nel caso della Embraco la già citata scheda della Regione Piemonte ci ricorda che dal febbraio del 2005 al dicembre del 2016 (ultimo dato disponibile) gli operai sono passati da 760 a 437; gli impiegati da 120 a 104; i dirigenti da 4 a 12. Ecco, sarebbe interessante sapere qual è la logica industriale di questi numeri e se qualche controparte pubblica si sia posta il problema del loro significato.