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March 08 2016
Per Lookout news
È finita in un nulla di fatto la prima tornata dei colloqui tra Ankara e l’Unione Europea sul tema dei 3 milioni di rifugiati in fuga dalla Siria che dalla Turchia premono per entrare in Europa. Il primo ministro turco Ahmet Davutoglu si è presentato al tavolo della trattativa per nulla intimidito dalle blande reazioni dei governi occidentali in merito alla stretta autoritaria delle libertà di stampa nel suo Paese (il New York Times ha parlato di “disintegrazione della democrazia turca”). Davutoglu ha avanzato un nutrito pacchetto di perentorie richieste economiche e politiche in cambio di collaborazione per fermare il flusso ormai incontrollabile di profughi.
Migranti: accordo UE-Turchia tutto da mettere in pratica
La crisi umanitaria in Siria, dal 2011 a oggi
Prima di analizzare i possibili sviluppi delle trattative – i colloqui tra Ankara e Bruxelles sono stati aggiornati al 17 marzo – occorre riesaminare come si è giunti alla crisi umanitaria che sta scuotendo dalle fondamenta tutta l’area Schengen.
Dall’inizio della guerra civile in Siria, alla fine del 2011, la Turchia ha lasciato aperte le frontiere verso Damasco consentendo lo sviluppo di traffici nelle due opposte direzioni: verso la Siria sono passati quotidianamente convogli di rifornimenti di armi e materiale bellico diretti ai rivoltosi anti Assad tra i quali i jihadisti dell’ISIS. Per aver documentato questi traffici il direttore e il capo redattore del quotidiano turco Cumhuriyet rischiano una condanna all’ergastolo.
In senso opposto, giorno dopo giorno, mescolati tra i camion che contrabbandano in Turchia il petrolio estratto nelle aree controllate dai ribelli così come dallo Stato Islamico, sono affluiti a migliaia i profughi in fuga dagli orrori di una guerra che ha già provocato 250.000 vittime civili. Nei primi tre anni di crisi il numero di profughi sconfinati in Turchia ha raggiunto la cifra di 3 milioni. Il governo di Ankara li ha accolti in campi di fortuna e per tre anni si è ben guardato dal richiedere l’aiuto della comunità internazionale per sostenere il peso economico e sociale di questa enorme massa di disperati.
All’improvviso, nell’estate del 2015, quando le polemiche sul coinvolgimento turco nel sostegno ai miliziani del Califfato hanno cominciato a fare breccia nell’opinione pubblica e nei governi di Europa e Stati Uniti – fino a quel momento molto cauti e tolleranti verso la spregiudicata politica regionale del presidente Recep Tayyip Erdogan – il governo di Ankara ha consentito l’apertura di canali più o meno clandestini di passaggio dei profughi verso le coste della Grecia, innescando una crisi umanitaria che ha investito tutta l’Europa meridionale rischiando di far saltare il trattato di Shengen.
Forte della minaccia permanente rappresentata dai tre milioni di rifugiati che puntano verso l’Europa e che sono comunque sotto il controllo turco, Erdogan ha imposto al proprio Paese una stretta autoritaria e una deriva islamista che sono incompatibili con gli standard di democrazia europei e che potrebbero mettere in discussione anche la presenza di Ankara tra i membri dell’Alleanza Atlantica. Attualmente la magistratura turca tiene sotto inchiesta oltre 2.000 cittadini turchi indagati per “vilipendio del presidente”. Inoltre, è dei giorni scorsi la notizia del commissariamento – con tanto di licenziamento dell’editore, del direttore e di molti giornalisti – del quotidiano Zaman, il più diffuso giornale turco, colpevole di sostenere le idee dell’intellettuale islamico moderato Fetullah Gulen, costretto all’esilio negli Stati Uniti.
Nonostante questi atteggiamenti Erdogan ha ottenuto dall’Unione Europea un aiuto di 3 miliardi di euro e ha inviato a Bruxelles Davutoglu a imporre delle condizioni che l’Europa dovrebbe accettare senza discutere se non vuole che i rubinetti dell’immigrazione clandestina vengano riaperti in modo incontrollato. La Grecia invece, che finora è stata costretta a caricarsi sulle spalle questa crisi, non ha avuto un centesimo di fondi comunitari per fronteggiare l’emergenza migranti.
Quale futuro nei rapporti tra Ankara e UE?
Di fronte alla stretta del governo turco nei confronti della libertà di stampa, le reazioni occidentali sono state all’inizio piuttosto blande. Il presidente americano, Barack Obama, si è dichiarato “disturbato” mentre l’Alto commissario per gli affari esteri della UE, Federica Mogherini, ha sostenuto con linguaggio diplomatico che “la Turchia deve rispettare i più elevati standard in tema di democrazia, rispetto della legge e delle libertà fondamentali a partire dalla libertà di espressione”.
Dall’estate del 2015 oltre 315.000 profughi siriani si sono riversati in territorio europeo costringendo alcuni Stati a chiudere le frontiere, mentre la Grecia veniva lasciata sola ad affrontare la marea di profughi che approdavano sulle sue coste.
La strategia di Erdogan
I tempi della crisi lasciano pochi dubbi. Erdogan ha aperto i rubinetti dell’immigrazione quando, grazie all’intervento russo, si è reso conto che il suo sogno di abbattere Bashar Al Assad, di contenere la presenza iraniana nella regione e di risolvere con le maniere forti il problema dell’irredentismo curdo, si stava dimostrando irrealizzabile. In questo modo ha sperato di dare scacco all’Europa e di ottenere rapidamente l’agognato ingresso di Ankara nelle file dell’Unione Europea.
Queste reazioni non hanno impedito al premier Davutoglu di chiedere all’UE nell’ordine: altri 3 miliardi di euro, liberalizzazione della concessione di visti per i cittadini turchi e accelerazione significativa delle procedure di ingresso della Turchia nei ranghi dell’Unione perché, ha dichiarato il primo ministro turco, “la Turchia ha bisogno dell’Europa e l’Europa ha bisogno della Turchia”. In cambio Ankara si è dichiarata disposta ad accettare un complesso meccanismo di “scambio” di migranti: l’Europa potrebbe “restituire” alla Turchia gli immigrati di natura economica e accettare, in pari numero, l’arrivo di richiedenti asilo.
Per fortuna i governanti europei non hanno ceduto di fronte alle richieste turche. Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, di fronte alle titubanze tedesche si è detto pronto a esercitare il suo diritto di veto sull’istanza di adesione di Ankara all’Europa se la libertà di stampa in Turchia non verrà garantita.
La partita con il duo Erdogan-Davutoglu è dunque aperta e ci sono ancora margini per costringere la Turchia ad abbandonare le sue mire di dominio regionale, le sue tendenze autoritarie, il suo appoggio al Califfato e a ridimensionare le sue minacce di far riversare verso il Vecchio Continente le centinaia di migliaia di disperati che sta usando in modo spregiudicato come arma di pressione politica e diplomatica.