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April 24 2013
Enrico Letta è l’uomo giusto per un "governo di servizio al paese".
Giovanissimo per gli standard italiani (46 anni), con una intensa e importante esperienza alle spalle. Ministro delle Politiche comunitarie e dell’Industria, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Nipote di Gianni. Estrazione cattolica, rappresenta nel Partito democratico quella che un tempo era la Margherita e prima ancora il Ppi. Ferrato in economia e diritto europeo. Persona non divisiva. Moderata di natura. Padre di famiglia (è andato al Quirinale col suo Ulisse dotato di seggiolini per i figli).
Il suo compito non è facile, però. Perché fatto il presidente incaricato, si dovrà formare il governo, anche se "non ci sarta un governo a tutti i costi". Qui nascono i dolori.
Il Pd è tuttora attraversato da fermenti e faide interne, preclusioni e veti espliciti o nascosti. Letta non è il Pd, è una parte del Pd. Certo, ha tenuto in quest’ultima concitata fase un profilo di lealtà nei confronti di Pierluigi Bersani, e rispetto ad altri nel partito non si è esposto contro nessuno. È stato un dirigente responsabile. Ma sconta il suo essere una personalità non di sinistra-sinistra, forse più di centro, con difficoltà nel ricucire una frattura che sembra ormai insanabile tra i democratici, destinata a produrre una scissione. Tutto questo potrebbe ripercuotersi sul voto di fiducia.
Inoltre, il Pdl con Angelino Alfano ha detto chiaro e tondo, fino a un attimo prima della convocazione di Letta (Enrico) al Quirinale, che col voto del centrodestra non potrà partire un semplice governicchio, quasi una riedizione del governo tecnico di Monti. Occorre, come ha detto lo stesso Letta ("faccio appello al senso di responsabilità di tutti..."), il pieno coinvolgimento politico dei tre partiti principali (Pdl, Pd e Scelta civica) anche nella scelta di ministri e sottosegretari.
Inoltre, il Pdl è stato finora maltrattato e schiacciato dal Pd che a dispetto dei propri guai e giochini interni, è riuscito a piazzare tutti e due i presidenti di Camera e Senato, il presidente del Consiglio (incaricato) e per via dell’estrazione politica e culturale lo stesso capo dello Stato (anche se la scelta, considerati i numeri in Parlamento, è stata alla fine pienamente condivisa dal centrodestra). Il Pdl non vuole e non può deflettere ora rispetto al programma di governo, perciò insiste per l’abolizione e restituzione dell’Imu sulla prima casa, per la riforma radicale di Equitalia e per la riduzione della pressione fiscale. Ma poi anche per tutti i 10 punti di programma indicati da Berlusconi nei giorni scorsi.
Qualcuno potrebbe pensare che il Pdl stia facendo un calcolo elettorale e, vista la progressione del centrodestra nei sondaggi, il crollo parallelo del Pd e il calo del Movimento 5 Stelle, sia tentato di rompere tutto e tornare al voto. Può essere. Ma Berlusconi ha detto chiaramente di preferire al voto (con tutti i suoi rischi) la nascita di un governo che risolva i problemi urgenti del paese. Rompere avrebbe controindicazioni forti per lo stesso Pdl. Per la scontata reazione di Napolitano, e per la ricaduta d’immagine (gli italiani sperano solo in un po’ di stabilità per fare le cose necessarie, e solo dopo tornare alle urne).
Resta infine la possibilità che il Pdl non debba far altro che stare fermo e perseguire la propria linea coerente fin da dopo il voto, aspettando che sia la sinistra ad affossare anche questo tentativo di Letta (e Napolitano). In ogni caso, se nascerà il governo non sarà di legislatura, cioè non durerà cinque anni. Dovrà fare poche cose (misure economiche, riforma della politica, nuova legge elettorale e, ovviamente, negoziati europei). Nel frattempo, tutti i papabili leader del futuro potranno riposizionarsi (da Letta a Renzi, a Barca e a Grillo a sinistra, da Berlusconi a Berlusconi e chissà se emergerà qualcun altro, a destra). Il futuro, ormai, non ha molto più respiro di questo incerto presente.