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October 27 2020
Le proteste esplose a Napoli e in altre città italiane a seguito dell'ultimo Dpcm per l'emergenza coronavirus riportano alla memoria le altre due grandi epidemie di colera che segnarono la storia della città partenopea e che fecero registrare in diverse occasioni il turbamento dell'ordine pubblico, quelle del 1884 e del 1973.
Il colera del 1884 nel "Ventre di Napoli"
Nell'estate del 1884 la città di Napoli era la più popolosa del giovane Regno d'Italia quando fu colpita da una grave epidemia di colera, la stessa che stava flagellando altri paesi d'Europa. Alla crescita demografica ( che nel 1881 contava ben 535.206 abitanti) non aveva corrisposto un adeguata riforma urbanistica, fatto che risultò in una cronica situazione di sovraffollamento caratterizzata da condizioni di estrema carenza igienico-sanitaria. Il morbo era giunto dalla Francia per mezzo di alcuni cittadini che erano riusciti a evadere il cordone sanitario d'oltralpe causando in pochi giorni il focolaio che ben presto divampò in un incendio, la cui portata fu alimentata grandemente dall'alto tasso di inquinamento idrico e da una rete fognaria mai sviluppata e ferma ai tempi dell'Impero Romano. Le abitazioni, i bassi e i fondaci che caratterizzavano la gran parte degli alloggi popolari erano buchi malsani privi di finestre e di servizi igienici, tanto che i vicoli stretti e bui della città erano vere e proprie cloache a cielo aperto. Il colera, date le condizioni di Napoli, colpì molto più duramente che in altre zone della penisola dove si era diffuso proveniente dall'Asia. I morti caddero a centinaia fin dai primi giorni, nonostante gli sforzi encomiabili dei dirigenti sanitari degli ospedali che pur privi di mezzi e farmaci adeguati cercarono di isolare i malati con un cordone sanitario come quello istituito presso l'ospedale della Conocchia, noto da subito come il "lazzaretto del colera". I tumulti scoppiarono fin dai primi giorni nei rioni più poveri di Napoli, a causa delle restrizioni imposte dalle autorità che peggiorarono notevolmente le già precarie possibilità di sopravvivenza della popolazione allo stremo. Diversi furono gli scontri con i Carabinieri e con l'Esercito inviato a Napoli per il mantenimento dell'ordine pubblico. Proprio la situazione esplosiva dovuta al rapido progredire dell'epidemia fece sì che i giornali riportassero le testimonianze della tragedia che colpì il "ventre" di Napoli, quello descritto dalla scrittrice e giornalista Matilde Serao che fu testimone dell'epidemia assieme al medico svedese Axel Munthe, che prestò in prima persona soccorso rischiando la vita sia per il rischio di contrarre la malattia che per l'accusa di parte della popolazione in preda al delirio superstizioso del ruolo di untore. Nei bassi e nei vicoli dove si ammucchiavano i morenti e dove i malviventi trovarono terreno fertile per truffe, minacce e saccheggi, si levò il grido di disperazione che arrivò sino a Roma, nelle lussuose sale del Governo di Agostino Depretis e del sovrano Umberto I.
Il colera del 1884 rappresentò infatti un banco di prova per l'immagine del Regno postunitario, soprattutto in una città come Napoli dove i sentimenti filoborbonici erano ancora ben presenti. Le cronache avevano inoltre messo a nudo le drammatiche condizioni sanitarie e sociali della città, cause alla base della diffusione incontrollata dell'epidemia, tanto che il colera del 1884 darà la spinta definitiva all'intervento pubblico nella trasformazione urbanistica di Napoli decisa dal Governo, un vero e proprio "sventramento" dei malsani quartieri centrali sconvolti dal morbo e dalle rivolte quotidiane dei disperati che li abitavano. Il re Umberto decise di visitare la città partenopea per placare gli animi e far sentire la vicinanza dello Stato postunitario nel vivo della tragedia. Il sovrano fu accolto dalle acclamazioni dei napoletani, che da allora lo onorarono dell'appellativo di "re buono". Mentre in città si contavano ormai oltre 8.000 vittime del colera, il Parlamento votò la legge per gli interventi urbanistici e sanitari per la città di Napoli, cui seguirà la fondazione della "Società Pel Risanamento di Napoli" ( da cui deriva la attuale Risanamento SpA) che attraverso lo stanziamento di fondi per 100 milioni di lire diede il via ai lavori che portarono alla nuova sistemazione urbanistica del centro della città, il cui cuore in stile piemontese fu la Galleria Umberto I, dedicata a quel "re buono" che aveva lasciato per un giorno la vita mondana per stare accanto ai morenti e ai disperati.
Il colera dalle cozze: l'epidemia dell'estate 1973
Il 25 agosto 1973 all'ospedale Cotugno di Napoli veniva isolato il vibrione del colera da un campione di liquame fognario del quartiere popolare di Piedigrotta. I primi casi sospetti si erano verificati in città dal ferragosto precedente a Torre del Greco, causando alcuni decessi che erano stati inizialmente attribuiti a gravi forme di gastroenterite. Quando la stampa nazionale rivelò la vera ragione della forma epidemica, a Napoli si contavano già sei morti. Il giorno seguente, all'ospedale Marasca di Torre del Greco venivano ricoverati altri venti pazienti con sintomi compatibili con il colera. I primi episodi di tensione si verificarono di fronte all'ingresso dell'ospedale degli infettivi "Cotugno" tra gli amici e i parenti dei ricoverati che cercarono di forzare il cordone sanitario organizzato attorno al nosocomio venendo dispersi dall'intervento dei Carabinieri. Il panico si diffuse presto in città, anche a causa delle notizie imprecise e contraddittorie fornite dalle autorità locali. Dal momento che i sospetti sulla diffusione del vibrione si concentrarono sul consumo di cozze crude infette, il Comune inviò la Polizia municipale che provvide al sequestro dei cibi ritenuti sospetti e a sequestrare partite di acqua minerale provenienti da fonti che si pensava potessero essere inquinate. Fu avviata la campagna di sanificazione delle strade partendo dal focolaio di Torre del Greco, la quale risultava essere in pessime condizioni igieniche a causa della grande quantità di rifiuti che giacevano non raccolti da lungo tempo. Un altro motivo di tensione che emerse durante i giorni del colera di Napoli fu la questione dell'approvvigionamento del vaccino, che nel picco dell'epidemia risultava disponibile in appena 10.000 dosi, un quantitativo assolutamente insufficiente per garantire la copertura sanitaria dei cittadini. Il 31 agosto giungeva la notizia di altri due decessi avvenuti all'ospedale "Cotugno" perennemente presidiato dalla Polizia per la pressione dei parenti dei ricoverati. Contemporaneamente alla crescita esponenziale dei ricoveri, scoppiavano le proteste e i tumulti. Mentre gli operai dell'Alfasud di Pomigliano d'Arco minacciavano lo sciopero generale, il centro della città era occupato da una folla variegata di giovani ma anche donne con bambini che protestavano per la mancanza di vaccini e per la mancata disinfestazione dell'edificio di uno degli ammalati deceduto in ospedale. A Chiaia veniva dato fuoco alle immondizie, così come in altri quartieri decentrati. La lentezza nell'approvvigionamento dei vaccini generò tensioni crescenti nei giorni successivi, quando fu chiaro che l'epidemia dilagava con il superamento della soglia psicologica del 200 ricoveri. Nei diciotto punti organizzati dalle autorità fu subito caos (all'ambulatorio di piazza Giovanni XXIII si presentarono in oltre 15.000) che generò scene di isteria collettiva e disordini di piazza. Per il crollo di una vetrata dell'edificio sottoposta alla pressione della folla rimasero feriti anche alcuni bambini. La situazione difficile dell'ordine pubblico e le proteste a cui si erano uniti 5.000 esercenti danneggiati dalle misure restrittive che avevano deciso serrate e licenziamento dei dipendenti, ebbero l'effetto di fare intervenire i sanitari americani della VI Flotta di stanza a Napoli che aiutarono la città con ulteriori dosi di vaccino inoculato rapidamente grazie alla dotazione di siringhe a pistola come quelle utilizzate nella guerra in Vietnam. Dopo la metà di settembre, mentre le istituzioni locali mostravano in molti casi una grave impreparazione sulla gestione dell'emergenza sanitaria, l'ordine pubblico fu nuovamente turbato dall'infiltrazione di sobillatori e caporioni (alcuni dei quali membri dell'estrema destra e della criminalità organizzata) che fecero pensare ad una ripetizione di quello che accadde a Reggio Calabria nell'estate del 1970. La bomba era innescata, l'esplosivo erano i quartieri più disagiati di una città con 150 mila abitanti sottoccupati e circa 200 mila disoccupati che fino all'epidemia vivevano di espedienti come il commercio abusivo reso impraticabile dal cordone sanitario. Gravi tumulti scoppiarono anche presso gli uffici dell'azienda municipalizzata dove si tenevano i concorsi per spazzini, dove si registrarono 11 feriti in seguito ad una fitta sassaiola con le forze dell'ordine. Alle proteste si unirono anche i pescatori e i venditori di cozze rimasti senza lavoro per la proibizione al consumo dei frutti di mare imposta dal Governo su tutto il territorio nazionale. Furono gli enormi sforzi delle autorità sanitarie, ma anche delle associazioni e dei circoli locali oltre all'intervento delle Sanità militari italiane e statunitensi a far si che il cordone sanitario reggesse scongiurando la rivolta popolare. In pochi giorni furono somministrate circa un milione di dosi di vaccino che fermarono il bilancio a un numero di morti compreso tra 12 e 24 (il dato non fu mai confermato) e circa un migliaio di ricoveri. L'ultimo caso di colera fu diagnosticato il 19 settembre 1973, il giorno di San Gennaro, mentre la causa dell'epidemia fu alla fine individuata in un carico di cozze infette dal vibrione. Non erano napoletane, ma venivano da una partita esportata dalla Tunisia, dove il morbo colpì duramente negli stessi mesi del 1973.