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March 01 2018
La foto di Tayyip Erdoğan sul palco con una bambina di sei anni vestita da militare sconcerta. Anche perché la bambina non appare felice, ma trattiene a mala pena le lacrime.
Se aggiungiamo il dettaglio che la piccola calza il basco granata delle forze speciali, ci allontaniamo ancora di più dal concetto, già discutibile, di innocente mascotte. Ma quando il Presidente turco riesce a dire che la bambina è pronta al martirio, che è disposta, Dio volendo, a una morte tragica in combattimento nel nome della bandiera nazionale, lo sconcerto deve lasciare il campo agli interrogativi.
Perché Tayyip Erdoğan usa un’arma di propaganda così sensibile ed estrema? La domanda s’impone anche alla luce delle aspirazioni di Ankara di entrare nell’Unione Europea, dove simili retaggi culturali appartengono ad epoche e ideologie fortunatamente confinate ai libri di storia.
Ormai da diversi anni, nel quadrante mediorientale, e certamente alimentato dalla tragedia siriana, vige un’estetica del conflitto che mette i bambini al centro del mirino. Un mirino che ormai non fa distinzioni, e non esita a mietere vittime reali e vittime di propaganda.
Così come nei reportage televisivi, con un montaggio dialettico ormai divenuto meccanico, ogni bombardamento in Siria viene illustrato con l’immagine di bambini o di adolescenti morti, esibiti come simbolo, anche nella comunicazione di Stato della Ragione l’infanzia gioca un ruolo cruciale.
Erdoğan ha costantemente sotto gli occhi i piccoli combattenti curdi che reclamano, come i loro genitori, l’indipendenza dalla Turchia. Aveva quindi bisogno di un’arma uguale e contraria per contrastare quest’estetica e parlare alla pancia della nazione turca.
Il pubblico di sostenitori che ha assistito alla scena ne ha immediatamente colto il significato, e cioè un riferimento alla battaglia in corso ad Afrin e che vede l’esercito turco fronteggiare i curdi nell’operazione militare in territorio siriano denominata Olive Branch.
Erdoğan ha compiuto quindi una scelta di campo, culturale e politica. E certamente calcolata. Deve allora far riflettere come tra le due sponde di riferimento, cioè quella europea e occidentale e quella appunto mediorientale, Erdoğan non abbia esitato a scegliere la seconda collocando così la Turchia in un contesto socio-culturale molto connotato e per nulla progressista.
D’altronde, lo abbiamo già osservato, non è semplice trovarsi nei panni della Turchia, che per posizione geografica e storia nazionale si trova davvero in una posizione di cerniera tra due civilizzazioni, in un punto strategico di estrema vicinanza a uno, o più, teatri di guerra.
Non dimentichiamo mai che il Paese confina con la Siria ma anche con l’Iraq. E con l’Iran. Questo spiega forse perché Erdoğan appaia politicamente bipolare, passando da relazioni diplomatiche burrascose a riappacificazioni clamorose: come rivelano i rapporti con la Russia di Vladimir Putin o quelli, appunto, con l’Europa o gli Stati Uniti ai quali il leader nazionalista appare ora come un interlocutore affidabile e ora come un potenziale nuovo Raiss.
Ma non bisogna nemmeno credere che il Presidente rappresenti tutta la Turchia. Il Sultano è un’espressione di una parte di Turchia, non di tutta la nazione, dove esistono voci liberali e laiche, attente al diritto per un’informazione indipendente e d’ispirazione riformatrice. Ed ecco perché, innanzitutto in Turchia, l’immagine di Erdoğan con la bambina dal basco granata ha fatto scalpore ed è stata considerata un abuso verso l’infanzia da diversi esponenti della scena politica e della società civile.
Il dibattito quindi non appartiene solo ai social (in genere molto clamore e poca sostanza) ma sta interessando i settori della vita pubblica turca, dando prova di una vitalità nel dibattito che nessuna forma di autoritarismo è riuscita finora, e per fortuna, a far tacere.