“Estate a casa Berto”: da Mogliano Veneto a Capo Vaticano, storia di un intellettuale

«Dieci anni, nove edizioni, e tantissimi ricordi che ci legano agli ospiti che si sono susseguiti durante il festival, in questo straordinario lembo di terra che ci ospita regalandoci delle esperienze uniche. È quello che vogliamo celebrare con questa nuova edizione - commentano i co-direttori Antonia Berto, figlia dello scrittore e Marco Mottolese, giornalista - attraverso omaggi speciali dedicati alla memoria di Giuseppe Berto e alla sua opera che nonostante il trascorrere del tempo continua a dimostrarsi più che mai attuale».

Da Il cielo è rosso, a Il brigante, da Il male oscuro, a La Fantarca, da Anonimo veneziano alle riflessioni sulla Calabria, Giuseppe Berto (1914-1978) ha impersonato la figura dell’intellettuale che fa i conti con la sua stessa esistenza dolorosa, sin dentro le pieghe più intime della propria anima, agitata da tristezza (in abbondanza) e gioia (a macchia di leopardo). E dopo essere approdato sul promontorio calabrese di Capo Vaticano, decise di stabilirvi il suo buen retiro. Per l’eternità…

Nato il 27 dicembre del 1914 a Mogliano Veneto, nel trevigiano, in quella pianura posta a ridosso della Serenissima, costellata dalle splendide ville con cui i veneziani, a metà del Cinquecento, abbellirono l’entroterra, Giuseppe Berto fu studente alla Facoltà di Lettere a Padova, con maestri del calibro di Concetto Marchesi e Manara Valgimigli: al fronte in Africa settentrionale dopo la sconfitta di El Alamein, fu fatto prigioniero nel 1943 e trasferito in Texas, a Hereford. Con il critico letterario Gaetano Tumiati, il magistrato e scrittore Dante Troisi, e i pittori Ervardo Fioravanti e Alberto Burri, Berto maturò una nuova spinta alla sua predisposizione letteraria, a contatto con le penne più vive di quella stagione letteraria, da John Steinbeck con il suo Furore ai racconti di Ernest Hemingway. Tornato in patria, con il romanzo La perduta gente, pubblicato tra il Natale del ‘46 e il Capodanno del ’47, col titolo inatteso e foriero di novità de “Il cielo è rosso”, ricavò immediato successo personale ed editoriale grazie all’editore Longanesi. Agli inizi degli anni Cinquanta, all’apice di quella fase comunemente definita “neorealistica” della sua produzione, Berto iniziò ad interessarsi di una terra lontana per collocazione geografica e sentire culturale: la Calabria era regione marginale per la maggior parte dei connazionali dell’epoca e, come se non bastasse, ambientò il suo romanzo “neorealista” per eccellenza nel cuore stesso degli sperduti boschi della Sila, l’antica “Hyle” dei greci. Ne nacque Il brigante, con Il protagonista a fare da paladino dei deboli e degli oppressi di quella popolazione contadina calabrese che Berto, in fondo, contribuirà a redimere ed a porre all’attenzione del dibattito nazionale. Fu a quel punto che, dopo aver girato “palmo a palmo tutte le coste dell’Italia Meridionale”, anche per trovare sollievo da uno stato psico-fisico sempre più instabile, nel 1957 incontrò finalmente, proprio in Calabria, il suo intimo Genius loci, “violento e armonioso e non ancora toccato dagli uomini”: si innamorò, infatti, perdutamente di due ettari di terreno incolto, a strapiombo sul mare, acquistati per 300 mila lire, grazie ad un prestito alla Cassa degli scrittori. A vendergli il podere un contadino del luogo, Nicola La Sorba, la cui unica preoccupazione era quella di costituire la dote della figlia in vista delle imminenti nozze. “Appena la vidi seppi che quella terra, dalla quale si scorgevano magiche isole, era la mia seconda terra, e qui son venuto a vivere”, scrisse ne Il male oscuro. “Sto su un promontorio alto sul mare, è un panorama stupendo. E quando il giorno, dalla punta del mio promontorio, guardo gli scogli e le spiaggette cento metri sotto, e il mare limpidissimo si fa subito blu profondo, so di trovarmi in uno dei luoghi più belli della terra”. Proprio in queste pagine c’è tutto il senso di attesa ed incanto per la nuova vita appena iniziata lungo la Costa degli Dei, una cinquantina di chilometri tra Pizzo Calabro a Nicotera (oggi in provincia di Vibo Valentia, nda), con il mar Tirreno a fare da palcoscenico alle Isole Eolie e all’Etna innevato. Nel 1965 Berto ritorna in libreria con un testo a dir poco sorprendente, La Fantarca, romanzo ironico che mise a nudo le paure generazionali della metà degli anni Sessanta: sarà il regista modenese Vittorio Cottafavi a farne uno sceneggiato per la tv, con Berto ai comandi, cullato dalle sonorità di Roman Vlad. Ancora 12 mesi ed Enrico Maria Salerno, attore pronto a cimentarsi con la macchina da presa, bussa alla sua porta con la richiesta di una sceneggiatura per un film che avrebbe preso la forma e la sostanza di Anonimo veneziano: prima la pellicola, poi il romanzo, pubblicato nel 1976, dopo che nel 1971 aveva visto la luce anche una versione teatrale, un testo drammatico in due atti. Scritti i dialoghi e consegnati all’esordiente regista nel 1967, Berto fu costretto ad affrontare anche la serrata critica che faceva leva sulla contemporanea uscita del celeberrimo romanzo di Erich Segal Love Story, quando in realtà non fosse poi così difficile appurare che i dialoghi di Berto avessero anticipato di qualche anno quelli dell’autore americano. Love Story ebbe un successo planetario, ma Berto l’aveva preceduto. Enrico -Tony Musante- un oboista della Fenice di Venezia che non era riuscito a diventare un grande direttore d’orchestra come sperava, dopo aver appreso di essere ammalato di un tumore incurabile, decide di invitare a Venezia l’ex moglie Valeria -Florinda Bolkan- che accetta nonostante il timore che la richiesta possa rivelarsi un tentativo di riconciliazione. Al loro ultimo incontro, Stelvio Cipriani dedicherà una delle più intense colonne sonore della storia della cinematografia italiana, consegnando all’immortalità la loro storia d’amore.

Intorno alla Calabria

Esattamente venti anni dopo la folgorazione per la sua Capo Vaticano, nel 1977 Berto pubblica uno scritto destinato a lasciare il segno: quel suo “Intorno alla Calabria. Scritti diversi di autori diversi che si pubblicano in occasione della mostra di oggetti e sculture di civiltà contadina organizzata a Capo Vaticano nell’osteria Angiolone da Giuseppe Berto”, si impone per la lucidità della analisi socio-antropologia e per quell’amore appassionato che nutriva, lui veneto, per la penisola calabrese. Inserito nel 1990 nelle pagine dell’affascinante volume “Calabria e Lucania. I luoghi, le arti, le lettere” da un illuminato editore milanese del calibro di Vanni Scheiwiller (1934-1999), che al paesaggio fisico ed interiore della Calabria stava dedicando pagine di assoluto pregio letterario, quella riflessione impressionò per la precisione chirurgica della sua analisi, attuale come non mai: “(…) La Calabria sarebbe potuta diventare il paese di un turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero spirituale per tutta la gente estenuata dalle nevrosi, dalle intossicazioni degli arrampicamenti, dal consumo e dall’industrializzazione che ormai fanno malata più di mezza Europa. Invece i calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato -anche gli alberi, le case, il paesaggio- con un accanimento che l’avidità, l’ignoranza e l’ansia di portarsi al più presto all’altezza di Jesolo e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell’inconscio (…)”. Berto invitava a capire perché “(…) i calabresi si sono venduti l’anima per un piatto di lenticchie (…)”. Un capolavoro partorito in appena tre mesi in quella vecchia casa contadina di Capo Vaticano, che ancora oggi si nasconde tra i pini mediterranei piantati con le sue mani, a dominare il mare a strapiombo, ammirando l’inconfondibile orlo delle Eolie all’orizzonte.

Capo Vaticano

Antonia Berto, un legame “fantastico”, quello di suo padre Giuseppe, con la Calabria!

«Mio padre era un solitario e nella sua “Fantarca” aveva immaginato che i calabresi avrebbero lasciato la loro terra per andare, grazie alle astronavi, su Saturno a vivere una vita migliore, lasciando il Mezzogiorno deserto e preda della sua natura selvaggia e meravigliosa. Forse lo scherzo letterario era per fingersi una solitudine esclusiva nella sua Calabria».

In realtà un legame con un paesaggio stupefacente…

«Vero! Quando nel 1955 mise piede per la prima volta a Capo Vaticano, dopo essersi affacciato dal promontorio, colmo di gioia scrisse di trovarsi “(…) in uno dei luoghi più belli della terra (…)”, nonostante quando vi si trasferì mancasse praticamente tutto, luce e acqua compresi: i primi anni li passavamo in tenda, ma eravamo confortati da un paesaggio occupato soltanto da fichi d’india, ginestre, vigneti e alberi di fico. Il mare era cristallino, le spiagge brillavano di sabbia bianca interrotte dalle celebri scogliere di granito».

A quei tempi iniziò il suo celebre impegno per difendere “Il Capo”.

«Erano due i punti di forza che facevano della Calabria di fine anni Cinquanta una terra letteralmente da sogno, l’agricoltura e il turismo: ma aveva anche intuito le potenti possibilità che uno sviluppo rispettoso dell’ambiente potevano dare alla sua seconda terra. Ricordo che nel 1968, con Stromboli all’orizzonte, dove il Capo si tuffa nel mare, ebbe il coraggio di tirare su dal nulla il “Capo Club di Capo Vaticano”, la prima discoteca del promontorio del Poro. E lo fece quasi maniacalmente, rispettando la vegetazione mediterranea».

Anche a Capo Vaticano sarebbe arrivato il boom edilizio…

«Come nel resto dell’Italia e del sud, in particolare. Papà si oppose con forza alla speculazione selvaggia, anche promuovendo l’attuazione di un piano regolatore: ricordo benissimo la mostra di arte contadina organizzata nel 1977 per preservare la scomparsa di quella cultura fortemente radicata nel territorio calabrese. Ne nacque un celebre libretto, “Intorno alla Calabria” “un atto di accusa per i calabresi, e un atto di amore per la Calabria”».

Da anni un “Premio” unisce il Veneto alla Calabria.

«Fondato a Mogliano Veneto, nel trevigiano, sua città natale, nel 1988, da un gruppo di amici ed estimatori dell’autore, tra cui, Giancarlo Vigorelli, Michel David, Cesare De Michelis, Dante Troisi, Gaetano Tumiati e da mia madre Manuela (scomparsa nel 2020), il Premio si propone non solo di commemorare Berto-scrittore, ma di valorizzare autori al loro primo romanzo, che mostrino elementi di assoluta originalità di forma e di schiettezza di ispirazione. Il fatto stesso che Berto, benché autore di grandi successi, fosse a lungo stato ignorato dalla critica ufficiale per il suo straordinario anticonformismo, mostra il senso più intimo della manifestazione che mantiene l’alternanza tra Ricadi e Mogliano Veneto».

Intanto avete appena inaugurato la decima edizione di “Estate a casa Berto”…

«Quel “rifugio di pietre”, come papà aveva definito il suo umile ritiro in terra calabra, ospitando spesso amici e scrittori, oggi si è trasformato nel festival “Estate a Casa

Berto” che continua ad attrarre intellettuali da ogni dove. Ideato da me e dal giornalista Marco Mottolese, coinvolge giornalisti, scrittori e artisti in conversazioni su temi culturali, serate di spettacolo e proiezioni. Con il suo “Capo” protagonista assoluto…».

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