Dal Mondo
November 23 2021
Vedere il volto di Xi Jinping che ondeggia tra le bandiere etiopiche durante le manifestazioni ad Addis Abeba contro gli Stati Uniti, fa un certo effetto. Eppure da quando è iniziato il conflitto in Tigray, regione nel nord dell'Etiopia, il Presidente cinese non era mai stato così popolare. Anche il sentimento antiamericano non era mai stato tanto forte tra gli etiopi e gli USA sembrano saperlo dato che tra le tappe del primo viaggio in Africa del Segretario di Stato americano Anthony Blinken, il grande assente è proprio l'Etiopia. «Questa situazione non l'abbiamo certo voluta noi» commenta Dagmawi Yimer, regista etiope, rifugiato politico in Italia da quasi 15 anni che osserva con attenzione il conflitto «ma è la diretta conseguenza di come gli USA stanno gestendo questa guerra ».
Sono settimane che da Londra a Washington ad Ottawa, migliaia di etiopi ed eritrei manifestano per dire agli USA #nomore o "giù le mani dall'Etiopia" perché la paura è che dopo la Libia, Iraq e Afghanistan sia la prossima a cadere per mano americana. Dalle restrizioni ai voli alle continue minacce di sanzioni economiche, fino alla sospensione dalle facilitazioni all'export garantite dall'Agoa, le misure intraprese dall'amministrazione Biden nei confronti di Addis Abeba accusata di violare i diritti umani, vengono viste come ingiuste e incomprensibili. Nonostante secondo quanto emerso dall'indagine ufficiale realizzata anche dall'ONU, sia l'esercito federale sia il TPLF (Tigray People's Liberation Front) avrebbero commesso più o meno gravi violazioni dei diritti umani, le accuse di "pulizia etnica" o di "genocidi" indirizzate al governo etiope e ripetute dallo stesso Blinken non hanno ad oggi trovato nessuna conferma.
«Nei 27 anni in cui il TPLF (Tigray People's Liberation Front) è stato al potere, in solidi rapporti di alleanza von gli USA, nonostante si sia macchiato di crimini contro la popolazione, dal genocidio di Gambella all'uccisione di decine di giovani manifestanti nel 2005, come denunciato peraltro da varie organizzazioni umanitarie, nessuna sanzione contro l'Etiopia è mai stata contemplata» commenta a Panorama Neamin Zeleke, capo dell'opposizione al precedente governo per anni in esilio negli Stati Uniti e leader del movimento Global Ethiopian Advocacy Nexus.
Con il primo ministro Abiy Ahmed invece, i rapporti si incrinano fin da subito. L'intesa con Eritrea e Somalia, ispirata a ideali panafricani e di indipendenza rispetto alle ingerenze occidentali, viene considerata "destabilizzante", come ribadito lo scorso aprile dall'inviato speciale USA per il Corno d'Africa Jeffrey Feltman fresco di nomina.A complicare i rapporti c'è poi la spinosa questione del GERD, la grande diga sul Nilo azzurro che l'Etiopia vuole ultimare per fornire corrente elettrica al 60% della popolazione che ancora vive senza. Un simbolo di orgoglio nazionale costruito peraltro con soli soldi etiopi che però che non piace al Sudan e soprattutto all'Egitto che pur essendo da sempre il principale beneficiario del Nilo azzurro, teme una riduzione dell'approvvigionamento di acqua nei periodi di siccità. Preoccupazione condivisa anche da Israele, irrorato dalle acque del fiume tramite il Sinai. Prima con Trump, che ventila addirittura il bombardamento dell'opera, poi con i modi più sottili dell'amministrazione Biden, gli USA si schierano in supporto di Egitto e Israele, cruciali per gli equilibri con i paesi arabi, e chiedono ad Abiy di non completare l'opera senza prima firmare un accordo vincolante sulla gestione delle acque, pena un taglio di 130 milioni di aiuti. Richiesta che il premier etiope però si rifiuta da sempre di accogliere.
Se di Biden dunque non ci si può più fidare, ed è probabile che dietro la sconfitta in Virginia vi sia lo schiaffo degli etiopi americani tradizionalmente democratici che qui hanno una delle comunità più numerose, non resta che guardare a oriente, alla Russia e soprattutto alla Cina che da tempo è entrata in Africa proponendosi come potenza di riferimento alternativa agli assetti atlantici. Epicentro della "guerra fredda" economica che si combatte tra le due super potenze sarebbe proprio l'Etiopia che con 110 milioni di abitanti, un'enorme forza lavoro giovane e poco costosa, il record di economia africana in più rapida crescita, nel giro di 10 anni è diventata il principale beneficiario dei capitali cinesi. Oltre 14 miliardi di dollari gli investimenti della Cina solo nell'ambito della via della seta. Addis Abeba però è anche l'hub diplomatico di riferimento, dove hanno sede l'UNDP e l'Unione Africana. I 22 piani di vetro e acciaio che affacciano su Roosvelt Street, sono proprio il simbolo del bivio su cui si affaccia il paese.Maestosa più del Parlamento europeo o di qualunque edificio delle Nazioni Unite, la sede dell'AU è stata realizzata con soldi cinesi ma basta guardare alla cautela con cui la maggior parte dei 55 paesi che ne fanno parte ha assistito alla guerra in Etiopia, consegnando la gestione politica della crisi agli Stati Uniti, per capire chi qui conduca la partita. Non a caso, uno degli argomenti sul tavolo del Presidente dell'AU volato negli USA a due settimane dalla nomina e in Israele a ottobre, è proprio l'utilizzo equo dell'acqua del Nilo.Anche l'Europa, che sulla crisi in Tigray si è caratterizzata per una linea filo americana ventilando tagli agli aiuti in conseguenza delle accuse umanitarie rivolte ad Abiy, starebbe giocando la sua partita tramite l'Unione Africana, spiega a Panorama Emanuela del Re attuale rappresentante speciale dell'Unione Europea per il Sahel e a capo di varie missioni in Etiopia nel ruolo di vice ministro degli esteri. «L'UE sta puntando su altri piani rispetto alla Cina perché la nostra forza sono i profondi legami storici e culturali con l'Etiopia, la nostra superiore qualità imprenditoriale, infrastrutturale. Quanto al'Italia, credo che il nostro modello di cooperative e piccole e medie imprese sia un unicum».
In questo momento però il Dragone ha un asset in più: l'estrema gratitudine dell'Etiopia consapevole che se non è ancora oggetto delle sanzioni ONU, lo deve proprio al veto di Russia e Cina. Il Ministro degli esteri cinese Wang Yi lo ha detto chiaramente in una conversazione telefonica con l'omologo etiope Demeke Mekonnen lo scorso 25 agosto quando lo aveva assicurato che la Cina si sarebbe opposta alle forze esterne tese a interferire con gli affari interni dell'Etiopia sotto il pretesto dei diritti umani. Una stoccata neanche troppo velata in primis agli USA che dalla loro, hanno sempre accusato la Cina di voler colonizzare l'Africa con la trappola del debito. «Difficile prevedere quale sarà l'esito di questa guerra - commenta a Panorama Lovise Aalen esperta di Humanitarianism, Aid and Borders per il Michele Institute di Bergen - di sicuro la comunità internazionale ha perso uno storico alleato che da sempre era considerato garante di stabilità nella regione specialmente nella guerra USA contro il terrorismo. Se però il TPLF dovesse scalzare Abiy Ahmed, è possibile che gli USA tornino in sella e ripristino l'alleanza con l'Etiopia».
Un'eventualità che secondo Zeleke sarebbe proprio quella auspicata dall'amministrazione Biden: «Un governo di transizione con dentro il TPLF aprirebbe la strada agli USA per tornare così ad avere uno spazio politico in Etiopia e sul Mar Rosso, cosa che con Abiy, poco malleabile rispetto agli interessi americani non è possibile». Se invece il TPLF dovesse essere sconfitto, è molto probabile che l'Etiopia dovrà aprire ulteriormente le porte alla Cina, e non certo per una sintonia di vedute dati gli standard poco rispettosi dell'ambiente e l'importazione di manodopera cinese in Africa. Lo conferma un report di Afrobarometro sulla percezione dei paesi africani secondo il quale, se da un lato questi accolgono di buon grado l'influenza economica e politica della Cina, dall'altro si sentono più vicini al modello occidentale, di cui apprezzano gli ideali di libertà.
Ora, se gli USA sperino davvero di tornare ad avere un ruolo centrale in Etiopia tramite questa gestione della crisi, secondo Jon Abbink, Direttore del Researchers' Assembly of the African Studies Centre dell'Università di Leiden, ci troveremmo di fronte ad un colossale errore di valutazione. «Credo che la gestione americana del conflitto - spiega raggiunto da Panorama - focalizzata su una eccessiva amplificazione dell'aspetto umanitario certamente importante ma strumentalizzato e utilizzato dai ribelli come una sorta di via libera, dipenda dall'incapacità dell'attuale classe dirigente USA, molto simile a quella di Obama e in ottimi rapporti con la dirigenza tigrina, di andare oltre le vecchie relazioni». Quelle che il TPLF aveva stretto in passato con Susan Rice, Gayle Smith, Linda Thomas, politici che oggi ricoprono ruoli centrali nella politica estera di Biden.
Se l'attuale situazione potrebbe dunque lasciar intravedere uno spostamento del Corno d'Africa ad Est, non è detto che per la Cina la strada sia tutta in discesa. La chiusura della finestra commerciale a condizioni agevolate verso gli USA, operativa dal prossimo 22 gennaio, colpirà anche l'export cinese dall'Etiopia. Non è da escludere infatti che la mossa americana oltre che su Addis Abeba, abbia puntato proprio su Beijing se è vero che, come ha sintetizzato una consulente del China Africa Advisory qualche tempo fa, la strategia americana per l'Africa "non riguarda l'Africa. Riguarda soprattuto la Cina". E gli USA.