Politica
March 04 2021
La moneta unica doveva essere il primo passo per l'unificazione del continente e per dare un fortissimo impulso allo sviluppo. Ci stiamo accorgendo invece che è stata soprattutto un grosso regalo alla Germania. E ha bloccato la corsa alla ripresa economica
dei Paesi meno forti. Così ci ritroviamo con un'Italia schiacciata dalla pandemia, ultima in tutte le classifiche anche quest'anno, che
vede il nuovo premier Mario Draghi come un salvatore. Ma con un debito pubblico alle stelle e un potere d'acquisto sempre più ridotto è impossibile fare miracoli. Soprattutto per questo euro.
«Tutto il denaro è una questione di fede», firmato Adam Smith. È così che l'euro è diventato da uno strumento - questo è una moneta ancorché imperfetta come l'euro: moneta unica di 19 Paesi che hanno economie, debiti, fisco del tutto differenti - un totem, una sorta di idolo cui si deve aderire fideisticamente. Lo aveva capito ben prima di Mario Draghi, di Romano Prodi, di Carlo Azeglio Ciampi il fondatore dell'economia classica. Non è una politica monetaria quella che ha portato alla creazione dell'euro, ma un atto di fede. Ce n'è uno che è rimasto nella coscienza di tutti gli italiani. Era il 1° gennaio 2002, giorno del debutto dell'euro come moneta corrente quando Prodi annunziò urbi et orbi: «Con l'euro lavoreremo un giorno di meno, guadagnando come se lavorassimo un giorno di più».
È lecito chiedersi se è andata davvero così soprattutto nella contingenza presente di fronte a un nuovo atto di fede, quello di Draghi che, nel suo discorso al Senato il 16 febbraio scorso, ha scandito: «L'euro è irreversibile». Che è come dire: l'euro è eterno! Neppure Sant'Agostino arrivò a tanto, di fronte al mistero dell'eterno. Dal punto di vista dell'ex presidente della Bce è comprensibile, perché l'unica manifestazione concreta dell'Europa è appunto la Banca centrale. Se non ci fosse Christine Lagarde che da Francoforte compra a man bassa titoli di Stato, i Paesi dell'Eurozona (Germania e Francia a parte) sarebbero inermi di fronte alla crisi della pandemia così come lo furono di fronte alle crisi dei debiti sovrani fino al fatidico «Whatever it takes» (a qualsiasi costo) draghiano che ha avuto oggi come conseguenza la sospensione del patto di stabilità.
Ma tanto Paolo Gentiloni (commissario italiano e del Pd all'Economia) quanto il vicepresidente Vladis Dombrovskis hanno già avvertito che la pacchia può durare al massimo fino al 2022, ai vent'anni esatti dell'euro che poi deve tornare a essere un totem salvifico. Peccato che la realtà e le tasche degli italiani si incaricano di raccontare un'altra storia. Vent'anni di euro ci hanno impoverito: abbiamo perso il 30 per cento di quote dell'export, abbiamo lasciato per strada 400 miliardi di Pil, siamo passati da essere gli europei con più soldi in tasca, a quelli che ne hanno in meno. E tutto questo col debito pubblico che invece di diminuire è cresciuto: dal 108% del Pil del 200 è a oltre il 135% del 2019.
Il 2020 con la pandemia fa storia a sé, ma se viaggiamo a questi ritmi arriveremo al 170%. In quel momento scatterà la trappola dell'euro. Perché? Siamo il Paese con minor debito privato e uno stock di ricchezza che fa gola. Gli italiani hanno in banca 1.500 miliardi e un patrimonio tra gli 8.000 e i 10.000 miliardi. Molta parte è immobilizzata nelle case di abitazione: è una ricchezza che risale agli anni del boom. Da Bruxelles su questa ricchezza vogliono metterci le mani. Da qui il continuo brusio sulla patrimoniale, dimenticando che gli italiani per entrare nell'euro hanno pagato nel '92 100.000 miliardi di lire col prelievo notturno di Giuliano Amato, e nel '96 altri 2.900 miliardi con l'Eurotassa di Prodi (solo in parte restituita).
La via più breve è drenare i soldi dei privati con manovre fiscali costringendo il Paese a onorare il debito pubblico. È quanto ha fatto l'Europa fino a un anno fa: la pressione fiscale è cresciuta fin oltre il 43% (in realtà per alcune categorie è vicina al 68%: record mondiale), le entrate fiscali (soprattutto con i governi a trazione Pd dal 2013 a oggi) sono arrivate oltre i 740 miliardi e valgono il 55% del Pil. Questo per costringere l'Italia ad avere un costante avanzo primario spostando ricchezza dai privati alle casse pubbliche.
Dall'entrata in vigore della moneta unica (fino al 2008) in tutti i Paesi dell'Unione sono aumentati i debiti complessivi: sia pubblici che privati. Eurostat li ha anche contati. Il debito complessivo delle famiglie italiane è pari (anno 2019) al 41,3% del Pil. Solo l'Irlanda sta leggermente meglio: 40,4. In Olanda (quelli che ci fanno la morale) è pari al 220%. La media dell'Eurozona è del 57,8%. E se cumuliamo debito pubblico e privato quello italiano è al 246,4% del Pil, inferiore alla media dell'Eurozona che è pari al 252,1. Solo la Germania ha diminuito il suo debito complessivo che è pari al 200% (quello pubblico è pari al 62%) il che significa che non è affatto la locomotiva, ma ha drenato risorse dall'Europa.
Vent'anni dopo il debutto della moneta unica Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco super rigorista oggi presidente del Bundestag, ha ammesso: «È vero, noi tedeschi abbiamo approfittato dell'euro». Il resto sono chiacchiere, molti soldi buttati e distintivo. Una prova? Il caso dei vaccini. L'unica cosa che Ursula von der Leyen era chiamata e poteva fare a nome di tutti i Paesi dell'Unione era salvarli dalla pandemia. Il risultato appare disastroso. Come fu disastroso il piano di maxi-investimenti da 350 miliardi annunciato dal suo predecessore Jean-Claude Juncker, di cui non si è vista traccia.
Torna così in mente un'altra dichiarazione del primo gennaio 2002. Avvertì Margaret Thatcher: «L'euro è un pericolo per la democrazia, sarà fatale per i Paesi più poveri, devasterà le loro economie». Perciò i britannici si sono tenuti stretti la sterlina. Oggi, ancorché presi a male parole dagli adoratori dell'euro dopo la Brexit, sanno che a giugno saranno liberi dal virus perché Boris Johnson dopo le iniziali deficienze ha messo il Regno Unito a produrre vaccini e ha somministrato sieri a tappeto. Il risultato è che nella corsa alla ripresa economica oggi il Regno Unito ha un vantaggio enorme sull'Unione europea.
Il fallimento di von der Leyen e l'incapacità dell'euro di essere un fattore di sviluppo è nei numeri. L'ultimo World economic outlook del Fondo monetario internazionale stima che quest'anno gli Usa si riprenderanno del 5,1% (hanno perso solo il 3,4) e la Cina volerà a +8,1. La sola zona del mondo che cresce meno della media del pianeta (stimata nel +5,5%) è l'Europa con 4,5, l'Eurozona ancora più indietro con il 4,2% e l'Italia ultima tra gli ultimi al +3%.
Come già successo nel 2008-2011 potrebbe accadere di nuovo 10 anni dopo che la moneta unica non si dimostri efficace a riparare le economie continentali. Una prova indiretta la offre un grafico di Eurostat: nel periodo 2009 (post crisi dei subprime) 2019 l'Eurozona è cresciuta (1,8% di media) meno dell'Europa a 27 che ha fatto uno 0,2% in più, meno del Giappone (0,1% in più), di gran lunga meno degli Stati Uniti che hanno viaggiato al 2,6 e infinitamente meno della Cina che è cresciuta del 7,2.
Basandoci su dati della Ragioneria generale dello Stato, fatto 100 il dato del 2007 al 2019, questo era il consuntivo: Germania 116, Regno Unito 115, Ue nel suo complesso 112,7, Francia 111,6, Spagna 107,4. Un solo Paese è arretrato in termini di Pil reale: l'Italia che nel 2019 è più povera del 2007 avendo perso quattro punti rispetto alla partenza (il nostro saldo è 96). I dati che riguardano l'Italia sono impietosi: abbiamo il terzo il tasso di disoccupazione più elevato, un Pil pro capite sotto la media Ue e così il potere d'acquisto.
Nel 2000 gli italiani avevano un reddito di 27.800 euro che era superiore sia alla media europea sia a quella dell'Eurozona; nel 2005 col reddito nostro a 28.300 euro annui, l'Eurozona ci ha sorpassato, nel 2013 col nostro reddito precipitato a 25.400 euro siamo andati sotto la media europea e oggi con 26.800 euro abbiamo in tasca 1.800 euro in meno della media europea e addirittura 4.000 euro meno della media dell'Eurozona.
Forse Prodi s'è sbagliato nelle stime. Probabilmente la costruzione dell'euro è errata. L'intento era quello di creare una moneta che impedisse alla Germania unificata di dominare le altre economie. Le cose sono andate diversamente. La Germania ha approfittato della sua bassa inflazione per crescere e dell'euro che le ha consentito cambi stabili per esportare. Del pari ha impedito che l'Italia continuasse con le svalutazioni competitive per compensare la sua bassa produttività dovuta al peso di un sistema Paese inefficiente e di un fisco aberrante.
Così la Germania è diventato il primo esportatore europeo, ha tenuto le sue banche territoriali al riparo dei controlli mentre ha fatto ingabbiare quelle altrui e ha fatto dell'Unione il suo mercato domestico: il 60% dei propri prodotti li vende in Europa. La dimostrazione? La crescita esponenziale del porto di Amburgo che è il terzo scalo europeo per dimensioni e traffico, ma è venuto a comprarsi lo scalo di Trieste. La Germania lo usa come porta per l'Europa, ma anche per accorciare la rotta verso Oriente.
Non è che uno degli esempi di come il meccanismo dell'euro abbia trasformato le economie dei Paesi che vi aderiscono. Vent'anni dopo resta però un'incompiuta. E ha ragione il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco a dire: «L'euro avrà un futuro solo se l'unione monetaria saprà tendere verso un unico Stato». Ma chi glielo spiega ai tedeschi che dobbiamo mettere in comune i debiti? Vent'anni dopo siamo al punto di partenza.
(iStock).
Jerome Powell, governatore della Federal Reserve, la Banca centrale americana, non si sognerebbe mai di ribadire che il dollaro è irreversibile. Per il semplice fatto che il dollaro per un americano è un elemento costituente della sua identità, il dollaro esiste in quanto esistono gli Stati Uniti d'America. E l'euro? L'euro no, tant'è che il governatore della nostra ex Banca centrale Ignazio Visco ha sentito il bisogno di affermare: «Una moneta senza Stato può durare fino a un certo momento, poi c'è bisogno di uno Stato e di un'unione di bilancio». Continui richiami all'Europa, ma l'Europa non c'è. O meglio si fa viva quando deve approfittare di «svenditalia».
Sono oltre 800 i marchi italiani finiti da quando c'è l'euro in mano straniera, un trasferimento di capitali che si avvicina ai 200 miliardi: dalle banche conquistate dai francesi all'agroalimentare e alla moda che hanno attirato francesi, tedeschi e cinesi. I giapponesi si sono buttati nell'hi-tech, i cinesi ora vanno alla conquista anche del turismo, i tedeschi hanno fatto man bassa dell'industria. Così, abbiamo smontato interi comparti che erano il primato dell'Italia. L'ultima perla è la nascita di Stellantis dalla fusione (in realtà un'acquisizione di Fca, Fiat Chrysler Automobiles che è stata di fatto comprata dai francesi) con Psa.
Perfino il «principe degli svenditori» Romano Prodi ha inarcato il sopracciglio dicendo: «È completamente in mano francese, lo Stato doveva intervenire». Già lo Stato. Con Giuseppe Conte e il Pd è intervenuto firmando una garanzia da 6,5 miliardi di euro per John Elkann, che una volta sposato ai francesi ha distribuito ai familiari dell'Agnelli & c. 2,8 miliardi di dividendi straordinari. E ora i francesi dicono che vogliono produrre le automobili in Francia, un settore da cui l'Italia è di fatto uscita.
Ma è solo l'ultimo episodio: il declino industriale italiano è cronaca quotidiana, basta pensare all'ex Ilva. O guardare i dati della disoccupazione raddoppiata dal 2008 (il tasso era 6,7%) a oggi, con punte di disoccupazione giovanile del 35% e almeno 1,5 milioni di posti di lavoro in bilico per la pandemia. Sono 160 le crisi irrisolte dal precedente governo che Giancarlo Giorgetti, nuovo ministro dello Sviluppo economico, ha ereditato.
In quel catalogo ci sono ex campioni dell'industria italiana. Certo infettati mortalmente dal virus, ma forse accompagnati al declino dal «ce lo chiede l'Europa». Che peraltro neppure storicamente esiste, almeno per noi italiani. L'Europa erano le terre genericamente a Nord del Mediterraneo per Ecateo di Mileto, i romani non le chiamavano così e fino a Carlo Magno l'Europa di fatto non compariva. Anche oggi ha confini geografici incerti, culture diversissime.
Non si è data una costituzione condivisa per cercare di evitare la babele di 28 Stati, parla una lingua non sua (l'inglese, ora che la Brexit si è compiuta, è una lingua straniera), ha diversi bilanci, diverse tasse, diversi debiti. Già, i debiti sono quelli che condannano noi italiani, che dobbiamo dirci europei senza poterlo o saperlo essere.
Anzi, per agganciare il carro dell'euro ci siamo svenati. Lo dice uno studio tedesco pubblicato due anni fa dal Cep (think tank di politica economica di Friburgo) secondo cui in vent'anni ogni italiano ha perso 74 .000 euro e ogni tedesco ne ha guadagnati 23.000, colpa delle differenti competitività e del fatto che con l'euro non si svaluta più. Lo hanno molto contestato, ma c'è un grafico - contenuto della Nota aggiuntiva al documento di economia e finanza firmato dall'ex ministro dell'Economia del Pd Roberto Gualtieri - che racconta un'amara verità: dal 2000 a oggi gli italiani hanno perso circa 1000 euro di reddito pro capite l'anno e ora ci ritroviamo in tasca 1.800 euro in meno della media europea e addirittura 4.000 euro meno della media dei Paesi che adottano l'euro.
Uno studio di Bloomberg ha illustrato che l'Italia dal 1985 al 2001 ha incrementato il suo Pil di 482 miliardi (+44%) e nei 15 anni successivi, vigente l'euro, lo ha accresciuto di appena 31 miliardi (un 2% risicato dice che in realtà ci siamo impoveriti); e lo stesso vale per il nostro export, contratto di un terzo a vantaggio della Germania, il Paese che dall'entrata in vigore dell'euro ha maggiormente incrementato il suo fatturato esterno. Ma la colpa, dicono i cultori della moneta unica, non è dell'euro, bensì dell'Italia che è in declino dagli anni Ottanta. Se si guarda l'indice di produttività si scopre che dal 1978 al 1998 ogni ora lavorata aveva un indice di produzione di Pil del 145 (10 punti sotto la Germania, 14 sotto la Francia). Nei 10 anni successivi l'indice si è ridotto a 105 per l'Italia, a 120,6 per la Francia e a 124,4 per la Germania.
Ma il vero fattore di perdita di competitività è stato che, mentre la Germania ha riformato la macchina statale, l'Italia è rimasta al palo e ha perso base produttiva, oltre a dover fare i conti col debito pubblico. È interessante mettere a confronto l'andamento della curva del debito con quella del Pil. La curva debito-Pil si incrocia per la prima volta nel 1992, direttore generale del Tesoro è Mario Draghi, al governo c'è Giuliano Amato, Romano Prodi dà il via alle grandi privatizzazioni.
Racconta Fabiano Fabiani, allora il capo di Finmeccanica: «Quando Draghi mi incontrava mi chiedeva: che hai venduto? L'imperativo era vendere tutto perché i Paesi europei - per far entrare l'Italia nell'unione monetaria - avevano chiesto di mettere sotto controllo la spesa pubblica e di cedere i pezzi buoni dell'Iri». E così è avvenuto. La curva ci racconta che dal '96 al '98, primo governo Prodi, il debito corre e il Pil frena. Succederà di nuovo con il governo Monti e dal 2013 in poi, con i tre governi a guida Pd (Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni), il debito esplode fino a 2.400 miliardi, il Pil si ferma a 1.780 miliardi.
È il segno del declino dell'Italia. Ma anche il segno che l'euro non è servito ad ammortizzare la crisi del 2008-2011, ancor più aggravato dalle politiche rigoriste, né che l'Italia ha recuperato competitività. Ma c'è un altro dato che va preso in considerazione nel tormentato rapporto tra gli italiani e l'euro. È la grande illusione dei mutui. I tassi bassi hanno fatto comprare casa fino al 2011, poi la grande crisi ha ridotto il valore degli immobili del 30%. Gli italiani si sono indebitati a tassi moderati ma hanno comprato a prezzi alti, si sono ritrovati con valori svalutati e una costante erosione del potere d'acquisto.
In vent'anni il reddito disponibile delle famiglie nell'area euro è aumentato dell'11,3% con punte del 21,2% in Francia, del 15,7 in Spagna, dell'11,8 in Germania. A rimetterci sono stati soltanto gli italiani: -3,8%. In vent'anni di euro, si è passati da una quota di debiti privati del 36% rispetto al reddito disponibile all'83% di un anno fa. A guadagnare dall'euro è stato solo lo Stato che ha piazzato il debito a tassi sempre più bassi. La spesa per interessi è passata dal 20% prima della moneta unica all'attuale quota del 9% sulla spesa pubblica. Ma anziché risparmiare, quello stesso Stato ha continuato a indebitarsi. Ed è questa la vera incognita sul futuro.