Economia
February 22 2013
Le due parole chiave sono “evasione fiscale”. Un fenomeno che non s’arresta anche in tempi di crisi. I profitti, e i redditi, declinano, mentre i flussi di capitali che corrono sulle autostrade dell’evasione più tradizionale e dell’elusione fiscale più sofisticata non rallentano la corsa. Tanto che oggi, di fronte al rischio del dilagare del “debito”, che contagia i conti pubblici degli Stati, il nemico comune da battere è proprio lei, “l’evasione fiscale”. È per questo che gli Stati Uniti, con gli altri Paesi del G20, rappresentativi del 90% del pil mondiale, da anni hanno mosso una guerra senza quartiere contro la pratica disinvolta de l’offshore e dei paradisi fiscali.
Il vento di questo cambiamento non ha precedenti. Chi lo ha dettato? I numeri. Il tax gap, cioè la differenza tra le entrate tributarie attese, o volontarie, e il gettito effettivo derivante da imposte e tasse. Divario questo ascrivibile all’evasione fiscale o al ritardo nei pagamenti dovuti. Un differenziale che nel corso del 2012 ha fermato la sua asticella sulla cifra da capogiro pari a 450 miliardi di dollari. Troppi, ha tuonato Obama. Troppi per un Paese, gli Usa, che si confrontano annualmente con un deficit in arrivo di 1 trilione di dollari.
Troppi, hanno ripetuto i vertici del fisco statunitense. Insomma, troppi. Tanto che se si considera il decennio passato, il tax gap ha visto dissolversi ben 3 mila miliardi di dollari. E non è finita. Queste stime, infatti, stentano a immortalare l’istantanea del gap generato dall’elusione fiscale, un processo più ingegnoso di pura finanza creativa. Secondo i dati elaborati dal Comitato del Senato Usa che si occupa di questioni fiscal-finanziarie, l’elusione comporterebbe la perdita di 1000 miliardi l’anno in territorio offshore. È una stima minimal sottolineano gli artefici dello studio. D’altraparte l’elusione è sfuggente e difficile da intercettare per una tavola statistica.
Di fronte a questo flusso di denaro assorbito dai fenomeni dell’evasione fiscale e dell’elusione, gli strumenti messi in campo dal fisco Usa sono variegati.
- Un incremento senza precedenti dei controlli sui milionari, di questi 1 su 8 s’è visto piovere addosso un controllo specifico l’anno passato.
- La compattazione e il potenziamento d’una unità sofisticata, una sorta di intelligence, di agenti speciali, 2.300, il cui compito è di controllare e gestire le questioni più oscure e maggiormente critiche. Per intenderci quelle che generalmente, nel 90% dei casi, terminano la loro corsa dietro le sbarre.
- La connessione sempre più diretta tra il Dipartimento della Giustizia, e gli uffici che lo compongono, nel trattare cause di evasione ed elusione fiscale. Il caso della banca svizzera Wegelin è un esempio più che calzante. Fondata nel 1741, prima che gli Stati Uniti conquistassero la propria indipendenza, questa banca è stata dichiarata espressamente colpevole d’aver persuaso, assistito e consigliato centinaia di contribuenti statunitensi nel trasferire i rispettivi capitali su conti riservati offshore, con l’unico intento di frodare il fisco. Il vulnus per l’erario è stato stimato in 1,2 miliardi di dollari. Si è trattato d’una condanna esemplare. Oltre alla frode fiscale, infatti, ha fatto la sua comparsa, o ricomparsa, il termine “cospirazione”.
Dunque, l’azione posta in essere dalla banca, e dai suoi consulenti, non s’è ridotta a un semplice dribbling di tasse e imposte. Al contrario, ha acquisito i termini, e il profilo, d’un e vero e proprio atto cospiratorio, e questo perché privando di risorse uno Stato se ne indeboliscono i suoi fondamentali economici, per esempio il debito, finendo per colpire un interesse specificamente nazionale. E se questo interesse è leso, allora alla semplice frode fiscale s’affianca la cospirazione. Insomma, tra un terrorista e una banca svizzera si stabilisce quasi una linea associativa sotto il profilo schiettamente normativo.
- A questa linea d’attacco all’evasione s’associa la strategia punitiva più tradizionale, ovvero, la prigione. E anche su questo piano i dati suscitano impressione. Nel 2012, su 3.701 procedimenti di natura fiscale, o che interessavano l’erario, ben il 93% hanno ricevuto una condanna, seguita da una sentenza esplicita: “prigione”. Giorni, settimane, qualche mese? No. Decine di mesi, anni. In media, infatti, ogni singola condanna s’è conclusa con sentenze che hanno previsto per l’evasore 32 mesi da trascorrere dietro le sbarre, in pratica, 2 anni e otto mesi. L’evasione fiscale non è un reato qualunque e gli agenti speciali che se ne occupano non sono funzionari qualsiasi. Si tratta di economisti, esperti in questioni geopolitiche e in materie finanziarie, profondi conoscitori della Rete, super-laureati, ricercatori.
Una sorta di think tank interno all’Agenzia delle Entrate statunitense - Irs. Una speciale unità d’Intelligence come da molti osservatori descritta. E per comprenderne a pieno il senso, consideriamo l’ultimo decennio. Questi i risultati: su oltre 31mila casi, 31.627 per l’esattezza, rispetto ai quali è stato formalizzato un rinvio a giudizio, quindi l’apertura d’un procedimento giudiziario di fronte a una corte, 29.096 si sono risolti con una condanna espressa che esplicitava una pena detentiva, il 92per cento. Insomma, l’unità speciale del fisco vince, sempre, o quasi. E a farne le spese sono quasi sempre i grandi evasori, contribuenti facoltosi o legati a gruppi e ad azioni criminali. Parallelamente anche le pene crescono. Nel 2002 non si superavano i 19 mesi dietro le sbarre, in media, ora invece ci si ferma a 32 mesi. Il metodo e la strategia funzionano.
Un secondo pilastro della stretta sull’evasione fiscale è costituito, negli Usa, da una serie di misure dirette a disincentivare la frequentazione, da parte dei capitali statunitensi, delle piazze finanziarie disseminate offshore. Tra queste, le più criticate dalle aziende americane, e non solo, è il Cut Unjustified Tax Loopholes Act, com’è stata ribattezza e che prevede esplicitamente la decadenza delle agevolazioni fiscali previste per le stock options riconducibili a grandi imprese che risultano trasferire capitali ingenti in paradisi fiscali utilizzando centinaia di società controllate. Un’altra legge da brivido, Stop Tax Haven Abuse Act, prevede la concentrazione di super-poteri presso il Dipartimento del Tesoro e a cascata sul Fisco. Per intenderci, il FATCA, Foreign Account Tax Compliance Act, con gli istituti di credito tenuti a informare il fisco Usa sui profili dei contribuenti americani che frequentano l’offshore, vede la propria nascita da questa norma che, di fatto, ha innalzato il profilo di potere del Tesoro Usa