Economia
January 08 2019
È la fregatura più indolore che un’azienda possa infliggere ai propri clienti. Ottieni un servizio gratuito e nessuno ti chiede niente in cambio: basta accettare con un click una serie di condizioni e poi puoi comunicare con gli amici in giro per il mondo. Eppure questo «niente» vale miliardi, per la precisione 40 miliardi di dollari, quanto il Pil dell’Estonia. Perché questo «niente» sono i tuoi dati, le informazioni sui tuoi gusti, i tuoi consumi, i tuoi viaggi, le tue abitudini, le tue scelte politiche, i libri che leggi e le serie che guardi. Che moltiplicati per i 2,2 miliardi di persone nel mondo (31 milioni gli italiani) che ogni mese si collegano a Facebook, fanno l’enorme tesoro sul quale il sito ha costruito il suo successo: vendere i dati dei propri utenti ad altre aziende, le «terze parti» come vengono definite nei documenti ufficiali, che li usano per fare campagne pubblicitarie super-mirate. Facebook è talmente avanti in questo genere di attività, che sembra addirittura voler predire il nostro futuro: il social network creato nel 2004 da Mark Zuckerberg ha presentato infatti il brevetto per una tecnologia che permetterà di calcolare la posizione futura di un utente in base ai dati già acquisiti dalla piattaforma.
Il problema è che l’utente di Facebook non ha la consapevolezza che i suoi dati vengono venduti e non sa in che modo vengono usati. Per questo motivo sul social network più importante del mondo iniziano a fioccare le multe. L’ultima, di 10 milioni di euro, è stata inflitta dall’Antitrust italiano il 7 dicembre 2018 per pratiche commerciali ingannevoli: il social network, scrive l’Autorità, non ha «informato adeguatamente e immediatamente i consumatori, in fase di attivazione dell’account, dell’attività di raccolta, con intento commerciale, dei dati da loro forniti. In tal modo ha indotto i consumatori a registrarsi sulla piattaforma Facebook, enfatizzando anche la gratuità del servizio. Inoltre, ha esercitato un indebito condizionamento nei confronti dei consumatori registrati, i quali subiscono, senza espresso e preventivo consenso, la trasmissione e l’uso da parte di Facebook e di terzi, per finalità commerciali, dei dati che li riguardano».
Strategia aggressiva
La documentazione dell’Antitrust svela nel dettaglio la tecnica usata da Facebook per convincere gli utenti a rendere disponibili i propri dati, un sistema che è stato ammorbidito dall’aprile di quest’anno ma che comunque non ha superato l’esame degli sceriffi della concorrenza. «Sino al 15 aprile 2018» ricorda l’Antitrust «l’utente che accedeva alla homepage di Facebook per registrarsi sulla piattaforma, a fronte di un claim sulla gratuità del servizio offerto (“Iscriviti, è gratis e lo sarà per sempre”) non trovava un altrettanto evidente e chiaro richiamo sulla raccolta e uso a fini commerciali dei propri dati» da parte del social network. Dopo il 16 aprile, Facebook ha modificato l’informativa fornita nella propria home page, riformulando il testo che precede il pulsante che consente la registrazione alla piattaforma: «Scopri in che modo raccogliamo, usiamo e condividiamo i tuoi dati nella nostra Normativa sui dati e in che modo usiamo cookie e tecnologie simili nella nostra Normativa sui cookie». Ma secondo l’Antitrust, continua a mancare «un adeguato immediato richiamo all’attività di acquisizione e utilizzo dei dati degli utenti a fini commerciali». Non solo. La politica commerciale di Facebook diventa aggressiva quando l’utente cerca di limitare l’utilizzo delle informazioni personali. Se per esempio ci troviamo nella Gameroom per giocare e abbiamo deciso di deselezionare i dati che non desideriamo trasferire a terzi, ci può capitare di ritrovare, in una successiva fase di navigazione nel gioco, questi stessi dati nuovamente impostati come se fosse stato concesso il consenso al trasferimento. Oppure ci troviamo di fronte a messaggi di questo tipo, molto penalizzanti: «Non potrai accedere ai siti web o alle app usando Facebook», «non sarai in grado di accedere ai giochi o alle applicazioni mobili usando Facebook», «i tuoi amici non potranno interagire con te e condividere elementi usando le app e i siti web», «le app a cui effettuato l'accesso (tramite Facebook o in modo anonimo) saranno rimosse», «i post delle app saranno rimossi dal tuo profilo». Un vizio, quello di spaventare gli utilizzatori, non nuovo: l’11 maggio 2017 l’Autorità italiana aveva multato per 3 milioni di euro WhatsApp (gruppo Facebook) per aver indotto gli utenti di WhatsApp Messenger ad accettare integralmente i nuovi termini di utilizzo, in particolare la condivisione dei propri dati con Facebook, facendo loro credere che sarebbe stato, altrimenti, impossibile proseguire nell’uso dell’applicazione.
Consumatori all'attacco
Ora, può anche darsi che alla maggioranza degli utenti di Facebook non importi nulla dell’uso che il social network fa dei suoi dati. Però potremmo almeno provare a prendere una fettina della grande torta cucinata con le nostre informazioni. Intanto ci prova il Fisco italiano con l’aiuto della Procura milanese: il 22 novembre scorso la società ha firmato un accertamento con adesione, chiudendo così le controversie con l'Agenzia delle Entrate che riguardavano alcune annualità del periodo 2010-2016. Facebook pagherà per questo oltre 100 milioni di euro. Meglio che niente.
Parallelamente si muovono i consumatori. Altroconsumo, in collaborazione con le associazioni di di Belgio, Spagna e Portogallo, ha chiesto che gli utenti europei di Facebook vengano correttamente informati sull'uso che viene fatto dei loro dati e che possano scegliere consapevolmente in qualsiasi momento quali informazioni condividere. «Tenendo conto dei benefici commerciali che Facebook ha ottenuto violando la protezione dei dati e le normative a tutela dei consumatori» annuncia Altroconsumo, «chiederemo per tutti gli utenti iscritti a Facebook un risarcimento di 285 euro per ogni anno di iscrizione al social (tra valore economico dei dati e danni morali)». Per ora alla class action hanno pre-aderito in Europa 170 mila utenti, di cui 48.239 italiani: se Facebook fosse costretta a risarcirli, si tratterebbe teoricamente di una spesa di una cinquantina di milioni di euro per ogni anno di iscrizione al sito.
Lo scontro con il colosso di Zuckerberg non sarà una passeggiata. Ma c’è da dire che il clima intorno al social network è molto peggiorato negli ultimi anni. Negli Stati Uniti il caso di Cambridge Analytica, società specializzata nel raccogliere dai social network un’enorme quantità di dati sui loro utenti, ha trascinato Facebook nello scandalo sui tentativi di influenzare le elezioni americane. Nel Regno Unito una commissione del Parlamento ha diffuso 250 pagine di documenti che mostrano come Facebook ha agito in modo deciso per avvantaggiare alcune società sulla sua piattaforma e ostacolarne altre, rivelando la disinvoltura con cui i manager del social network discutono della gestione dei dati degli utenti riguardo a privacy e sicurezza. In Norvegia è stato pubblicato un rapporto della locale associazione di consumatori che denuncia come Facebook abbia tentato di manipolare le scelte dei consumatori sulla condivisione dei propri dati.
Infine, secondo un'inchiesta del New York Times, il social network avrebbe stipulato accordi con oltre 60 produttori di smartphone e dispositivi mobili, rendendo loro disponibili informazioni sulla rete dei propri iscritti, anche in questo caso senza esplicito consenso o addirittura quando gli utenti erano convinti di aver negato qualsiasi tipo di trattamento dei propri dati personali.
Se a queste pratiche scorrette si aggiungono le falle, il quadro è ancora più preoccupante. L’ultimo esempio è di settembre, quando circa 1.500 app sviluppate da 876 sviluppatori sono state autorizzate ad acquisire contenuti cui i rispettivi utenti avevano (o credevano di avere) bloccato l’accesso: ovvero interi album fotografici privati di 6,8 milioni di utenti.
Investita dagli scandali e con il numero di utenti ormai fermo negli Stati Uniti e in calo in Europa, due dei suoi principali mercati per i ricavi pubblicitari, la creatura di Zuckerberg vede allungarsi lunghe ombre sul suo futuro: la festa del social più famoso è finita?