Al Trento Film Festival, in una serata dedicata all’alpinismo femminile, Reinhold Messner ha dichiarato la fine del machismo in montagna ricordando i tanti ragguardevoli traguardi raggiunti dalle donne. In vetta agli Ottomila senza ossigeno, sono entrate di diritto nella leggenda dell’alpinismo. «La donna ha un’eleganza tutta sua in parete, di gran lunga maggiore di quella di un uomo, e la capacità, confermata da studi scientifici, di adattarsi meglio e più a lungo alla mancanza di ossigeno ad alta quota».
Ascoltando Messner sembra davvero lontano quell’universo maschio e maschilista nel quale tante si sono fatte strada a fatica, pressoché invisibili, a meno che non fossero in coppia con il compagno di una vita. E tornano alla mente le parole di Silvia Metzelin, personaggio di spicco dell’ ambiente alpinistico internazionale, fra le prime, nel 1978, a far parte del Club Alpino Accademico Italiano: “Devi sempre dimostrare di essere all’altezza, devi portare uno zaino di 30 chili anche se ne pesi 50, e se scivoli su un passaggio, non è la Silvia che è scivolata, ma tutte le donne che devono stare a casa a fare la calza”.
Oggi è assodato che fare la calza e scalare un Ottomila non si escludono a vicenda, anzi.
Sul palco del teatro trentino, insieme a Messner e ad alcune colleghe, giovani e meno giovani, Marianne Chapuisat, unica alpinista non professionista e prima donna su una vetta himalaiana in inverno. «Il Cho Oyu l’ho scalato per amore» aggiunge lei, ricordando il sentimento di unità con il tutto che l’aveva pervasa in cima, «uno stato di grazia indimenticabile. Un’emozione che provo anche altrove, ad esempio quando sono sulle Grandes Jorasses o anche in mezzo ai miei studenti (Marianne insegna francese in un liceo di Losanna), ma lì è stato un momento particolare perché le sensazioni fisiche non possono essere sostituite dalle emozioni».
Marianne non si fa problemi ad ammettere che dal punto di vista della forza fisica, la donna ne ha meno dell’ uomo e «quando avanzi affondando nella neve fino al ginocchio e in spalla hai uno zaino di 50 chili, lo senti». Ma poi a compensare la mancanza di una forza titanica ci sono le qualità della natura femminile, un insieme di resistenza, flessibilità, pazienza, volontà, intuito, istinto e condivisione più che competizione. Il piacere dell’impresa, infatti, è tipicamente maschile. Di solito la donna non è interessata al raggiungimento della vetta come impresa in sé e se l’ ha cercata, è stato per smarcarsi da una condizione culturale e da uno stato sociale che la relegava in secondo piano. Conquistare un po’ di spazio per sé diventava una conquista per tutte le donne.
Una disciplina di ferro come quella richiesta per scalare un Ottomila si può coniugare con la natura ciclica femminile senza rinunciare a qualcosa?
«Sì che si può. Al campo base del Nanga Parbat eravamo tre donne, c’era rispetto dell’intimità di ciascuna, comprensione e condivisione. Eravamo immerse nella natura, ne sentivamo il ritmo, eravamo dentro il ritmo naturale, avevamo il ciclo, stavamo bene».
E la paura? «Fa parte del viaggio, metafora della vita. Io personalmente non mi sono mai bloccata per paura ma non ho neppure mai sfiorato il limite estremo. So quando è necessario fermarmi e lo faccio un passo prima».
Marianne non è diventata professionista della montagna non tanto perché trovare sponsor è difficile quanto perché si tiene stretta la libertà di decidere quando partire e dove andare senza rinunciare per questo alle altre ricchezze di cui sono piene le sue giornate. «Il viaggio himalaiano è tre volte viaggio: interiore, senza altri pensieri se non i propri e la possibilità di alleggerirsi dei falsi problemi della vita, organizzativo e alpinistico. Al di là della preparazione fisica e dei materiali, che continua sul posto, hai tanto tempo per aspettare e riflettere e deve essere il momento giusto per farlo».