Televisione
November 17 2020
Prima di diventare una mini serie sbanca ascolti, Gli orologi del diavolo è una storia vera e un libro di grande successo, che racconta la sliding door dai risvolti tragici di Gianfranco Franciosi, meccanico navale che a metà degli anni 2000 si ritrova a diventare un agente infiltrato per contro della polizia nel mondo dei narcos. A narrare per primo la sua vicenda, fatta di luci, ombre e polemiche che si stanno trascinando anche dopo la messa in onda della fiction di Rai 1, è stato il giornalista Federico Ruffo. «Quella di Gianfranco, inserito nel programma testimoni dopo aver contribuito al più grande sequestro di cocaina mai effettuato in Europa, ancora oggi è una vita sospesa», racconta a Panorama.it il conduttore di Mi manda Rai 3.
Come ci si è imbattuto nella storia di Gianfranco Franciosi?
«Lavoravo per Presa diretta a una puntata su pentiti e testimoni di giustizia quando capimmo che qualcosa nel programma di protezione dei testimoni non tornava. La cosa emerse in maniera nitida già nel processo sulla morte di Lea Garofalo: la donna firmò volontariamente per uscire dal programma, che la costringeva a una non vita, e nonostante fosse sotto protezione fu trovata e uccisa dal marito».
Come l'ha conosciuto?
«Era a Corleone per intervistare Ignazio Cutrò, presidente dell'Associazione nazionale testimoni di giustizia, quando mi raccontò per la prima volta la storia di questo "fantasma" che se la passava male e si era ritrovato senza soldi e lavoro».
E come l'ha convinto a raccontarsi?
«Nessuno mi voleva mettere in contatto con lui, mi dicevano che era un tipo strano e particolare. È stato un appuntamento con il destino a farci conoscere: dopo le ennesime minacce - Franciosi si trovò quattro proiettili sull'auto blindata che si era comprato con i suoi soldi – decise finalmente di rompere il silenzio».
Il primo incontro?
«A Genova, nel parcheggio di un bar. C'era un gelo clamoroso, io tremavo per il freddo e vidi arrivare questo tizio in pantaloncini e maglietta. Ho pensato: "Cominciamo bene". Poi si è rivelata una persona coraggiosa e si fidato di me: nel 2015 è nato il libro».
Se lo aspettava il successo della mini serie Gli orologi del diavolo?
«Non me lo aspettavo, ma ci speravo. Già registrando le interviste per il libro ho capito che era una storia con un potenziale forte anche per una serie tv».
Cos'è piaciuto al pubblico?
«Il protagonista è un uomo qualunque che diventa un infiltrato e questo ha portato il pubblico a empatizzare entrando più facilmente dentro la storia. Poi c'è il fattore Fiorello: Giuseppe, che appena ha letto il libro ha detto "voglio farne una fiction", non sbaglia un colpo e la gente gli riconosce una grande credibilità. E infine il linguaggio pop: non è la classica serie sui narcos e il regista Alessandro Angelini ha fatto un ottimo lavoro di sintesi, puntando su fotografia ricercata e ritmo elevato».
La distanza tra libro e fiction è ampia?
«C'è, soprattutto nella narrazione, ed è ovvio che ci sia perché le esigenze televisive sono altre. Ma alcune mie intuizioni sono rimaste: come il chiamarlo "meccanico" o il fatto che il protagonista si definisca "un criminale senza soldi e poliziotto senza pistola". Non è stato facile scrivere il libro, perché mi sono dovuto calare nei panni di Gianni e sintetizzare sette anni di emozioni».
Con Franciosi vi siete sentiti dopo la messa in onda?
«Via messaggio, perché lui ha esigenze di sicurezza più forti in questo periodo, avendo subito un altro attentato. Ma ci dovremmo incontrare a breve».
Come sta vivendo il faro puntato sulla sua storia?
«Dopo anni passati a ingoiare merda, è commosso perché la serie gli rende giustizia. Anche se la realtà è molto più maleodorante e meno patinata di come l'abbiamo raccontata. Ora si vede riconosciuta una parte di se che nessuno gli riconosceva: ci voleva, visto che è reduce da forti problemi di salute e da cure intense».
In questi giorni FanPage ha pubblicato un lungo articolo citando diverse testimonianze di chi l'ha conosciuto e ne viene fuori un ritratto tutt'altro che lusinghiero: c'è chi l'ha definito un truffatore, chi un delinquente.
«Non giudico mai il lavoro dei colleghi, in particolare poi Fanpage fa un gran lavoro da sempre, abbiamo anche collaborato negli ultimi tempi. Semplicemente credo che in quest'occasione abbiano calcato la mano nel modo sbagliato tentando, credo, di accodarsi a un momento di popolarità di questa storia, ma nelle cosiddette inchieste non ho trovato un solo minuto relativo all'attività da infiltrato di Gianni messo in dubbio. I suoi precedenti - un'appropriazione indebita e una detenzione d'arma - mi erano noti, lo erano a tutti: la seconda fu parte dell'operazione di polizia, la prima un contenzioso per un motore riparato e per il quale il cliente ritenne il prezzo eccessivo».
In campo è sceso anche il Sindaco di Ameglia, in veste di "grande accusatore".
«Ha smentito l'intervista telefonica, sostenuto sia stata montata e querelato, con tanto di scuse a Gianni. L'informatore incappucciato pochi mesi prima, in due puntate de "La Piena", il podcast dedicato a questa storia, sosteneva l'esatto contrario. Poi ci sono due ex soci in causa con Gianni dopo che il suo cantiere è fallito, tra il 20218 e il 2019: ancora non sono neanche giunti in tribunale. Uno di loro prima racconta di aver visto Gianni con una pistola, il giorno dopo rettifica dicendo di non sapere se fosse vera o finta, poi che non vuole più parlarne. È stata una buona operazione per visualizzazioni e click, ma il resto mi pare contenere poco».
Lei era a conoscenza dei procedimenti penali che ha a carico?
«Quando si fa un lavoro d'inchiesta - e questo libro nasce da un'inchiesta per Presa Diretta, lo ripeto - bisogna necessariamente verificare tutto il possibile, anche quando ci si trova davanti a una serie di fascicoli secretati, come in questo caso. I cosiddetti "precedenti" di Gianni non erano comunque un segreto, lui per primo me ne parlò, proprio perché si trattava di una questione legata al lavoro in cantiere, un cliente scontento, e di qualcosa di legato all'operazione, cosa poi confermatami dal suo agente di collegamento. Non a caso la gran parte delle testimonianze, che trovo drammaticamente incomplete, senza uno straccio di riscontro o prova, tantomeno pronuncia di un qualunque tribunale, sono relative al dopo, al periodo in cui il suo cantiere è fallito. Fallito perché per anni, quelli nel programma di protezione, era stato abbandonato e farlo ripartire è stato impossibile. Non bisognerebbe mai scordarselo: dopo quasi sette anni da infiltrato, Gianni, la sua seconda moglie e i suoi tre figli sono rimasti sotto falsa identità e in località protetta per tantissimo. Al momento di ripartire lo Stato non c'era».
Al netto di queste critiche molto forti, che cosa si aspetta ora?
«Dopo l'uscita del libro ha avuto ancora problemi ma spero che dopo la fiction qualcosa per lui si possa sistemare e che i fari restino accesi. Purtroppo c'è un anti-Stato con anticorpi forti e c'è il rischio che venga nuovamente abbandonato e resti senza un lavoro».
Prima ha parlato degli attentati subiti da Franciosi. Anche lei ne ha subito uno: nel 2018 gettarono benzina nel pianerottolo di casa sua, a Ostia. Chi fu il mandante?
«A oggi non c'è identificazione certa degli esecutori o dei mandanti e penso che la Dia di Roma stia ancora indagando. Posso ipotizzare che ci sia un nesso con la mia inchiesta sui legami tra 'ndrangheta e ultras della Juve: era andata in onda dieci giorni prima dell'intimidazione provocando molto malumore. La Digos di Torino ha intercettato alcuni ultras molto contenti che fosse accaduto quell'episodio».
Cosa ricorda di quella sera?
«Ero tornato tardi da Torino, dove registravo un programma e mi ero addormentato vestito sul divano. A un certo punto il mio cane iniziò ad abbaiare e ci mise in allarme: l'attentatore, evidentemente maldestro, era inciampato sulla sua ciotola».
È rimasto a vivere a Ostia dopo quell'episodio?
«Sì, perché Ostia è casa mia e perché non voglio darla vinta a nessuno. Anche se emotivamente è stato pesante».
Ha ricevuto altre minacce?
«Diciamo che i tifosi della Juve mi vedono ancora oggi come nemico e sono spesso oggetto d'insulti e campagne d'odio sui social: ho imparato a gestirle, ma ci sono stati momenti in cui ricevevo anche mille messaggi deliranti al giorno. Diciamo che conosciuto la cattiveria dei social, che purtroppo fotografato anche i lati più neri e peggiori della nostra società».
Da settembre è al timone di Mi manda Rai 3, in coppia con Lidia Galeazzo. Dopo un inizio in affanno, gli ascolti sono in salita e ieri avete toccato il record stagionale. Soddisfatti?
«La distanza con la media dell'ultima stagione si è improvvisamente assottigliata e siamo contenti: non era facile ereditare il programma dopo quattro anni di conduzione di Salvo Sottile, che è un grande professionista e un volto forte. Ci vuole tempo per strutturarsi e un po' alla volta stiamo crescendo».
Considera Mi manda Rai 3 la sua grande occasione?
«Più come un appuntamento con il destino. Sono uscito da redattore e ci sono rientrato da conduttore. Entrai in Rai proprio a Mi manda Rai 3 e Stefano Coletta, attuale direttore di Rai 1, è stato uno dei miei caporedattori. Ma ci sono arrivato dopo anni di fatiche, amarezze e pregiudizi. Non incarno lo stereotipo del giornalista in giacca e cravatta e spesso me l'hanno fatto pesare chiamandomi «il bagnino» - in senso dispregiativo – o scartandomi all'ultimo per alcune conduzioni. Devo dire grazie a Daria Bignardi, la prima a farmi passare alla conduzione, e oggi a Franco Di Mare ed Elsa Di Gati che mi hanno dato questa importante possibilità per farmi crescere».