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August 11 2015
Fiamma Nirenstein è stata designata nuovo ambasciatore di Israele in Italia. Lo ha annunciato il premier Benyamin Netanyahu, che ha l'interim anche del ministero degli Esteri, indicando nell'ex parlamentare italiana, giornalista e scrittrice, il nuovo rappresentante dello Stato ebraico a Roma, al termine della missione dell'attuale rappresentante Naor Gilon. "Sono convinto che Nirenstein" ha detto il premier "avrà successo nel rendere più profonde le relazioni tra Israele e Italia, un paese nostro stretto amico".
"Sono onorata e commossa e penso - ha detto all'Ansa Nirenstein "che questo sia un grande onore che Israele mi concede come un seguito naturale di quella che è la battaglia di una vita".
Una vita tra due Paesi
Nata il 18 dicembre del 1945 a Firenze da una famiglia ebraica e laureata in Storia Moderna, Nirenstein può dire di aver speso una vita tra l'Italia e Israele e di essersi battuta a favore dello Stato ebraico e contro l'antisemitismo con numerose iniziative e nei sui scritti. Dal 1993 al 1994 è stata anche Direttore dell'Istituto Italiano di Cultura a Tel Aviv. Ha ricoperto il ruolo di inviata dal Medio Oriente prima per il quotidiano La Stampa e poi, dal dicembre 2006, per il quotidiano Il Giornale e per il quotidiano telematico L'Occidentale. Da Gerusalemme - spiega sul suo sito - ha scritto reportage, commenti, storie, interviste, sui conflitti, le guerre, il terrorismo, sulle dinamiche fra le tre religioni monoteiste e sui segnali di pace, di democratizzazione e di conflitto nell'area intera.
I giornali e la politica
È stata a lungo anche collaboratrice di Panorama. In passato ha scritto su Paese Sera, L'Europeo, L'Espresso, Epoca. Nirenstein è anche autrice di dieci libri. L'ultimo, A Gerusalemme, è uscito nel 2012 per Rizzoli. Quello precedente, Israele siamo Noi (Rizzoli, 2007) è stato tradotto in inglese. Il suo debutto in politica è avvenuto nelle elezioni politiche del 2008 come candidata nel Popolo della Libertà ed eletta nella circoscrizione Liguria. È stata anche vicepresidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera dei Deputati nella XVI Legislatura. Fa inoltre parte di numerosi centri studio e fondazioni tra cui il "Jerusalem Center for Public Affairs", l'Hudson Insititute di Washington, la Fondazione Magna Carta e la Fondazione Italia-USA. Nel giugno 2011 il Jerusalem Post l'ha inserita nella lista dei 50 ebrei più influenti del mondo. Membro degli "Amici europei di Israele" e fondatore del "Friends of Israel Initiative", nel 2011 è stata eletta presidente del "International Council of Jewish Parliamentarians". In anni recenti è tornata a vivere in Israele e quest'anno si è candidata alla presidenza della Comunità ebraica romana. (ANSA).
Noi, gente qualunque di un Paese unico
In questo articolo, Noi gente qualunque di un paese unico, scritto per Panorama a maggio 2008, Fiamma Nierenstein racconta la vita quotidiana nello Stato di Israele.
Quando accettò il Nobel per la letteratura nel 1966, Shai Agnon, nato nel 1888 in Galizia ed emigrato a Gerualemme, disse: «In realtà, mi sono sempre sentito un autentico figlio, un nativo di Gerusalemme». Questa è la verità, il senso profondo di Israele a 60 anni: l'aver restituito la sua verità al popolo che, dopo aver fondato il monoteismo da cui nascono democrazia e diritti umani, fu gettato ai quattro angoli del mondo e perseguitato.
Avergli restituito la sua lingua, la possibilità di «essere un popolo libero sulla sua terra», come canta Ha Tikva (la speranza), l'inno nazionale su musica di Bedrich Smetana. Quando l'Onu, nel novembre 1947, votava di nuovo la legittimità internazionale già acquisita nel 1922 con la Partizione, la folla danzò per le strade pur sapendo che cinque eserciti arabi erano già pronti all'attacco. Con la libertà dunque nasceva la necessità di difendersi, e questa combinazione forse è ciò che a noi europei, che identifichiamo la democrazia con la pace, impedisce di capire Israele, così odiato, così mistificato. A volte, se la giornalista spiega quanto sia bella e piena di gioia la vita in quel paese continuamente colpito, non le si crede. Sono antinomiche, per noi, guerra e libertà. Eppure, la vita di Israele è quella di una pace in guerra, di una società gelosa della sua democrazia quanto della sua stessa esistenza. La gente, nonostante le minacce di sterminio dell'iraniano Mahmoud Ahmadinejad e il tormento quotidiano dei missili di Hamas e degli attacchi terroristi, è di ottimo umore: la sua vitalità è incredibile, la sua economia fiorente. La gente parla della guerra senza retorica: quanto freddo ha preso il ragazzo sul confine del Libano, o che carattere irascibile ha il «mempei», il comandante della «bambina». I soldati passeggiano abbracciati alla ragazza coll'Uzi a ciondoloni, lo appoggiano alla panca alla fermata del bus. L'eroismo è familiare e non militare: «Ho acchiappato il terrorista per le spalle, ho portato la borsa piena di tritolo all'angolo, ho salvato tutti; mia madre ha sentito la storia alla radio, e quando sono tornato a casa mi ha tirato uno schiaffone» racconta Shai lo studente-cameriere che ha evitato l'attacco al Caffè Cafit di Gerusalemme.
Persino di Roi Klein, saltato volontariamente su una granata durante la guerra del Libano gridando «Shema Israel», la preghiera principe degli ebrei che proclama l'unicità di Dio, si ricorda con poche parole solo quanto amava la moglie e il suo villaggio. L'incredibile catena di eroismo che punteggia di morti e feriti la storia di Israele è celebrata senza magniloquenza, ogni uomo che muore nella memoria dei suoi cari resta in genere un ragazzo «silenzioso, tranquillo, che amava la pace e aiutava tutti», non un samurai esperto nell'arte della guerra. Dal lungo viaggio in India o in Messico che tutti fanno dopo i tre anni di servizio militare, i ragazzi chiedono al telefono se il Kinneret (il mare di Galilea) ha riguadagnato 1 centimetro o 2, tutta Gerusalemme discute dell'incredibile ponte, un po' come quello di Brooklyn, all'ingresso della città, o della passione per la danza del ventre. Inglobati nel discorso pubblico, la lite sui diritti dei beduini nell'esercito o sul matrimonio civile (che non c'è, in una società che dà asilo invece agli omosessuali palestinesi perseguitati) è altrettranto forte della memoria degli uccisi e degli eroi, o del senso di mancanza che nasce da avere tre rapiti nelle mani del nemico: Eldad Regev e Ehud Golwasser dal luglio 2006 in quelle degli Hezbollah, Gilad Shalit in quelle di Hamas dal 2005. Nessuno dimentica il dramma nella gioia, ma nessuno dimentica la gioia nel dolore: per i rapiti, si è tenuto fuori della porta del premier Ehud Olmert una grande cena di celebrazione della Pasqua che festeggia con canti e letture la fuga dall'Egitto verso la libertà. Non è strano, qui, che Eretz Neederet (Terra meravigliosa), un programma che ride proprio su tutto, dalla Shoah al Gran rabbino, da Olmert ai terroristi, lasci posto alla tv a una trasmissione in cui si ricorda il tredicenne Kobi Mandel, ucciso a colpi di pietra nel maggio 2001, come Ernest ed Eva Weiss, sopravvissuti ad Auschwitz e uccisi nella strage di Natanya sei anni fa. Si accompagnano in piscina i bambini facendoli attraversare tenendosi la mano; si campa sotto la pioggia di missili di Sderot; ci si spreme il cervello su invenzioni cibernetiche che improvvisamente rendono molto ricchi ragazzini di origine russa che cedono la loro creatura a qualche grande azienda americana; l'orchestra sinfonica di Tel Aviv e il museo di Gerusalemme restano fra i primi nel mondo, mentre non solo Khaled Mashal, il capo di Hamas, ma anche Abu Mazen, fanno trasmettere alla tv soavi facce di bambini che promettono di diventare shahid: martiri, terroristi suicidi contro «gli ebrei figli di cani e porci». Ahmadinejad grida il suo odio e costruisce la bomba. La guerra e la pace sono sempre stati i due grandi ciambellani di Israele, sempre al suo fianco, onnipresenti e gelosi l'uno dell'altro.
Israele non è solo l'unica società democratica del Medio Oriente, ma anche una delle più democratiche del mondo. La stampa non conosce limiti né gerarchie, il sistema giudiziario funziona anche quando il nemico usa i suoi civili come scudi umani. E viene punito il soldato che colpisca proditoriamente un civile nel campo avverso. Ma per noi europei la parola guerra è inconcepibile, se non in termini di aggressione: gli occidentali imperialisti, cattivi; e gli aggrediti (i poveri, il Terzo mondo) deresponsabilizzati. Così non sappiamo guardare Israele, persino adesso che l'estremismo islamico col suo odio ha rovesciato i paramentri. Ma Israele ha posto tutto il suo sforzo nella libertà, nonostante la guerra: le donne possono camminare sole la notte senza paura, le porte restano aperte nella maggior parte dei quartieri, essere ricchi è bello ma non c'è snobismo sociale, la familiarità è persino eccessiva: in un minuto ti chiedono quanto guadagni, se sei sposato e anche cos'è quella cicatrice sul viso.
La solidarietà è enorme, nessuno ti abbandonerà per strada. La mia amica Petra Heldt, pastore luterano che vive in Israele, fu ferita quando il mercato di Mahanei Yehuda saltò in aria nel 2000. Un taxi la caricò a bordo mentre sanguinava abbondantemente, e una donna mai vista prima salì con lei sull'auto e le tenne la testa in grembo finché i dottori di Sharei Tzedek non se ne presero cura. «Nessun altro paese fa questo»: Petra è sicura.